L’idea va e viene almeno dal 2003: fare un Museo della lingua italiana. Un luogo rappresentativo, anche nella struttura, in cui si possa raccogliere la storia più intima di questo Paese costruito nei secoli intorno a una presunta unità linguistica che, nei fatti si è realizzata solo dopo la metà Novecento, quando l’analfabetismo è stato ridotto allo zero virgola e l’italiano e diventato la lingua madre di tutti, un patrimonio condiviso sovrapposto alla varietà dei dialetti. Una storia intima perché fatta delle parole di ogni giorno, così come sono evolute nell’esprimere il quotidiano e personale incedere di sentimenti, azioni ed emozioni. Un tema intrigante che proprio questo pomeriggio è al centro di una tavola rotonda alla Società Dante Alighieri, che ha per titolo: 'Siamo pronti per un Museo della lingua italiana?'. Un incontro che prende spunto dalla contemporanea presenza in libreria di tre titoli, opera di linguisti fra i più noti: L’italiano è meravigliosodi Claudio Marazzini (Rizzoli); Il museo della lingua italiana di Giuseppe Antonelli (Mondadori) e Storia illustrata della lingua italiana di Lucilla Pizzoli e Luca Serianni (Carocci). Così, insieme agli autori, ne discutono oggi nella sede di Palazzo Firenze anche Michele A. Cortelazzo, presidente dell’Associazione per la storia della lingua italiana presso l’Accademia della Crusca, Marco Mancini dell’Accademia dei Lincei e il segretario generale della Dante, Alessandro Masi. Dicevamo del 2003. In quella data venne realizzata agli Uffizi una grande mostra dal titolo: 'Dove il sì suona. Gli italiani e la loro lingua', curata da una squadra di italianisti guidata da Luca Serianni. Ne parliamo con Lucilla Pizzoli, docente di Linguistica italiana all’Università degli studi internazionali di Roma, che alla realizzazione di quella mostra ha partecipato attivamente.
L’iniziativa degli Uffizi è stata un punto di svolta?
Sì, perché lavorammo con l’idea di fare qualcosa di temporaneo, ma da lì piano piano si è formata in noi l’idea di un museo. Allora la temporaneità ci serviva per esporre manoscritti e testi da tutto il mondo, che altrimenti non avremmo mai potuto avere tutti insieme. Solo per fare qualche esempio, avevamo il Placito di Capua del X secolo, custodito a Montecassino; avevamo il manoscritto Vaticano Latino 3793 del XIII secolo, che raccoglie come in un’antologia composizioni poetiche come la famosa Rosa fresca aulentissima attribuita a Cielo d’Alcamo, custodito alla Biblioteca apostolica vaticana; avevamo il manoscritto originale del Decameronecustodito a Berlino. Tutte testimonianze originali dei primi passi della lingua italiana scrit- ta accanto alle quali abbiamo cercato di dare conto dell’evoluzione dell’italiano parlato. Ecco, dalla buona riuscita di quell’iniziativa è nato il dibattito sulla necessità di un museo che se è ancora fermo alle parole è solo perché in questi anni si è assistito a un sostanziale disinteresse della politica.
Cosa deve raccontare un museo della lingua italiana?
Vede, l’italiano è una lingua inventata, potremmo dire costruita a tavolino dai letterati del Trecento, che però aveva già solide basi nel parlare comune. Un museo deve dare conto per prima cosa proprio di questo intreccio fondamentale, della complessità evolutiva della nostra lingua.
Fin qui siamo alla parte teorica, ma nei fatti come la raccontiamo?
Occorre sfruttare tutte le tecniche che la museografia internazionale ha messo a punto per mostrare e raccontare i beni immateriali. È necessario il rimando a situazioni esperienziali, perché la lingua è continuo interscambio, è fermento. Basti solo pensare ai frequenti dibattiti mediatici sul si può dire o non si può dire, su quello che ieri non si poteva dire e che oggi invece sì, sulle parole non più in uso e sui neologismi. Se poi si vogliono raccontare gli interscambi che nella storia ci sono stati con le altre lingue ci sarebbe da riempire una decina di sale.
Naturalmente la multimedialità non basta. Servono anche oggetti concreti...
A questo proposito nella mostra agli Uffizi avevamo sfruttato proprio i punti di contatto con le altre lingue attraverso le parole che nei secolo sono state usate per chiamare gli oggetti d’uso, il cibo, le nuove invenzioni, i capi di abbigliamento, gli arredi per la casa, le attrezzature marinaresche, gli animali esotici. Un lavoro di commistione fra lingue, di inserzioni onomatopeiche, di influenze geografiche, di contaminazioni dialettali che può ben essere rappresentato partendo dagli oggetti più significativi, dalle parole italiane che hanno trovato un posto fondamentale nelle altre lingue e via dicendo. Ci sono parole che nascondono storie che possono riempire libri interi.
Fra i testi scritti, oltre a quelli antichi (che si possono avere solo in riproduzione) cosa metterebbe nel museo?
Ci sono tanti testi di letteratura e di musica contemporanea che offrono osservatori privilegiati per capire l’evoluzione della lingua. Anche la scrittura dialettale è fondamentale perché non si può raccontare l’italiano senza considerare i dialetti. Ma ci sono anche testi non letterari come i moderni graffiti murali. Nel libro scritto con Serianni ne abbiamo raccolti alcuni particolarmente significativi. E ci sono anche tanti graffiti che emergono dal passato che raccontano moltissimo del passaggio popolare dal latino all’italiano. Basti pensare al famoso graffito trovato nelle catacombe di Commodilla, che si è fatto risalire al IX secolo: « Non dicere ille secrita a bboce », cioè «Non dire i segreti a voce (alta)». Sembra ancora latino ma già non lo è più.
Parole che raccontano anche il ruolo della Chiesa nella formazione della lingua.
Anche qui si può aprire un capitolo vastissimo. La Chiesa ha risemantizzato moltissimo latino introducendolo nell’italiano corrente.
Abbiamo significativi esempi nel mondo?
Non c’è un museo standard della lingua. Ogni lingua ha il suo modo di rappresentarsi. Ma forse il Museo della lingua portoghese realizzato a San Paolo del Brasile nel 2006 presentava interessanti novità. Purtroppo è andato perduto in un incendio nel 2015.
Tre oggetti moderni che non dovrebbero mancare nel suo museo ideale?
Il libro di Antonelli apre e chiude con due motorini: il 'Sì' e il 'Ciao'. Io aggiungerei l’ormai internazionale tazzina dell’'espresso'. Se poi dovessi pensare una novità letteraria metterei i testi di alcuni autori non di lingua madre che hanno scelto di esprimersi in italiano come, per esempio, Igiaba Scego. Ma esistono anche luoghi e paesaggi che raccontano l’italiano.