Manifestanti a Peshawar, in Pakistan, nel settembre 2020 / Epa/Arshad Arbab
Spesso si rifiuta di vedere come il fanatismo sia una 'malattia' che attraversa tutti i mondi religiosi, anche se non arriva ovunque alle stesse conseguenze. Ma il radicalismo non è solo nell’islam e non è tutto l’islam, anche perché - come sottolineava il mio amico libanese Ghassan Tueni - le prime vittime del terrorismo e del radicalismo islamico sono i musulmani stessi. Giustamente, Adrien Candiard (Fanatismo. Quando la religione è senza Dio. Emi pagine 80, euro 10) ha scelto di non parlare di radicalismo o d’integrismo o d’islamismo, espressioni significative di realtà vere e attuali, ma di fanatismo (la parola italiana è apparentata a quella francese). Ha ragione nel dire che il termine è un poco inconsueto, ma è largo e copre un insieme di realtà che ogni giorno ci lasciano stupefatti o ci spaventano. Rimonta a Voltaire e alla sua definizione di fanatismo, inspiegabile per il filosofo francese, una vera follia che ha aperto la strada anche alla considerazione psichiatrica del fenomeno, che non può essere esclusa, ma non spiega tutto e in tutti i casi.
Come la religione può condurre a tanto odio, alla violenza, al terrorismo o alla guerra? Una domanda che si ripresenta ogni volta di fronte a un attentato o a una guerra in cui emergono motivazioni religiose. La sorpresa e lo scandalo sono genuini e giusti, ma non ci si deve dimenticare che nella storia di tutte le religioni ci sono pagine e periodi in cui la violenza è stata usata e sacralizzata. E il fanatismo è ancora vivo ai nostri giorni. Non basta invocare la moderazione, come una ricetta da raccomandare a tutti. Si contrappongono i 'musulmani moderati' ai 'musulmani radicali' o fanatici. L’invito alla moderazione è un’arma spuntata di chi resta fuori da una comprensione reale dei fenomeni, quasi attribuendo le conseguenze drammatiche a un eccesso di religione. Condivido pienamente l’osservazione di Candiard: come cristiano non mi sentirei elogiato se mi si definisse moderato. Certo nemmeno fanatico. E san Francesco, si chiede Candiard, era un moderato?
Il fanatismo c’è ed è una realtà che si è acuita, non solo per i contatti stabiliti dal mondo virtuale, ma anche per gli accostamenti di popolazioni diverse, dovute ai flussi migratori del mondo globale, e per quel senso di spaesamento che prende la gente di fronte a nuove convivenze e a un mondo senza confini. Il fanatismo aiuta a darsi un’identità, magari attraverso la creazione dei nemici o il recupero dei comandamenti. Non è un caso che questo libro, piccolo ma serrato nella sua riflessione, inizi da un caso terribile, quello di un droghiere pachistano di Glasgow che, nel 2016, fa gli auguri di Pasqua su Facebook ai suoi amici cristiani. Qualche ora più tardi si trova pugnalato da un musulmano. È un episodio che non si spiega con la contrapposizione tra fanatici e moderati. Chi frequenta il Medio Oriente sa che, oltre alle tensioni, c’è un aspetto di convivialità, per cui ad Aleppo in Siria, o una volta a Gerusalemme, o ad Alessandria d’Egitto, le autorità religiose musulmane e cristiane si scambiavano, con reciproche visite, gli auguri per le rispettive grandi feste. Così facevano anche per quelle ebraiche, finché ci sono state le loro comunità. A livello di famiglie, avveniva nella vita di quartiere e i ragazzi mangiavano i dolci tradizionali fatti per le feste. Il droghiere di Glasgow era in una linea tradizionale, forse senza nemmeno saperlo.
Adrien Candiard non si accontenta di spiegazioni superficiali o scandalizzate, ma va a fondo all’idea di fanatismo. Da islamologo qual è - anche se le sue ricerche si sono allargate in altri campi, come quando nel 2003 ha scritto sull’anomalia di Berlusconi - ha cercato una spiegazione più profonda, che è anche la radice di una risposta che non sia solo paura e deprecazione. È risalito a Ibn Taymiyya, teologo musulmano del XIV secolo, riferimento dei salafiti e dei jihadisti, che rilascia una fatwa che, a tanta distanza di tempo, sembra consigliare il tragico trattamento ricevuto dal cordiale musulmano di Glasgow. I suoi assassini probabilmente non lo sapevano, ma erano prigionieri, come tanti oggi, della spietata logica del fanatismo religioso. Questa "prigionia" ha tante spiegazioni (politiche, storiche, sociologiche), ma ce n’è una troppo trascurata eppure fondamentale. È la spiegazione religiosa. Candiard la mostra e qui sta tanta parte dell’interesse del libro, coerente e lucido.
Ci vuole un approccio teologico al fanatismo: «È proprio - scrive Candiard - questa esclusione della teologia, cioè di un discorso ragionato e critico sulla fede e su Dio, che favorisce il fanatismo». C’è una teologia largamente implicita e forse anche esplicita dietro al fanatismo islamico e agli atti di terrorismo, che parte dallo hanbalismo, dalle radici antiche, ma è stato rivitalizzato nell’ultimo secolo con il riformismo islamico e i salafiti. Candiard scrive pagine che fanno meditare, perché vanno al cuore del problema in modo originale e non si limitano a un approccio esterno e difensivo: qui ci si scontra con una «teologia che pensa l’inutilità della teologia. Una teologia da cui Dio è assente, salvo che sotto la forma dei comandamenti ». Il Dio vivente è 'uscito' dal mondo dei fanatici (musulmani e di altre religioni), lasciandoli soli con l’idolatria delle loro regole.