Trovatori in una miniatura del “Cancioneiro da Ajuda” - WikiCommons
Il Purgatorio è la cantica delle arti, a cominciare dal musico Casella (canto II) che intona la canzone del Convivio: «mor che ne la mente mi ragiona», sino al poeta Bonagiunta che nuovamente rende omaggio a Dante poeta: «Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ’Donne ch’avete intelletto d’amore» (XXIV, 49-51), per compiersi nell’elogio di Guido Guinizzelli e di Arnaut Daniel al canto XXVI. A ben vedere – a parte Brunetto Latini, condannato tra i sodomiti – gli amici e sodali di Dante son tutti a purificarsi nel Purgatorio, quasi le arti fossero – come additava don Giuseppe De Luca – quell’«imbastitura in bianco» che ancora non è abito di salvezza ma già ne annuncia la forma: «per me i poeti sono i maestri, non delle verità da credere, ma delle verità con cui credere. Più di ogni altro artista, il poeta si getta vivente nel suo fuoco, e dentro vi arde senza lasciar traccia d’estraneo né scoria» (G. De Luca, La poesia, paradiso artificiale, 1955; poi in “Archivio italiano per la storia della pietà”, X, 1997). L’arte è quell’ordinata forma che il divino dipintore dà all’intero creato: «Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi; / ma esso guida, e da lui si rammenta / quella virtù ch’è forma per li nidi» ( Par., XVIII, 109-111); e che l’artefice umano imitando manifesta come “sorriso” e “miniatura” dell’eterna bellezza: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?”. // “Frate”, diss’elli, “più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”» ( Purg., XI, 79-84). La forma stessa delle cornici che cingono la montagna del Purgatorio, con gli exempla di vizi e di virtù scolpiti a monito e incitamento, è parte di questo processo: nel canto XII Dante posa i propri piedi come su lastre sepolcrali della storia e del mito (quasi percorresse la navata di un’antica cattedrale) e vi vede scolpiti, in tredici terzine mirabili, figurazioni di superbia punita: da Lucifero a Nembrot, ai piedi della torre di Babele, da Niobe a Roboamo. L’arte “fa segno”, rappresentando addita: «Mostrava ancor lo duro pavimento /... Mostrava la ruina e ’l crudo scempio / ... Vedeva Troia in cenere e in caverne». La sua conclusione arriva a quella perfetta fusione di rappresentazione e verità: «Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vide mei di me chi vide il vero» (XII, 67-68), che già il poeta aveva illustrato, con ammirato stupore, nel canto X, appena entrato nella prima cornice del Purgatorio: «Là sù non eran mossi i piè nostri anco, / quand’io conobbi quella ripa intorno / che dritto di salita aveva manco, / esser di marmo candido e addorno / d’intagli sì, che non pur Policleto, / ma la natura lì avrebbe scorno» (X, 28 33). Vi è – come nelle vetrate delle cattedrali medievali – incisa tutta la storia della salvezza, a iniziare dall’Ave dell’Annunciazione: «L’angel che venne in terra col decreto / de la molt’anni lagrimata pace, / ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, / dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace. / Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”» (X, 34-40). Dante fa qui dell’arte lo «spazio dei tempi» (Friedrich Ohly, La cattedrale come spazio dei tempi. Il Duomo di Siena, 1979), il tramite tra la vita e la memoria quale ancora ci offrirà Marcel Proust: «Essi [gli uomini del Medioevo] entravano nella chiesa, vi prendevano quel posto che avrebbero conservato dopo la morte e dal quale essi potevano continuare, come in vita, a seguire il divino sacrificio, sia che – sporgendosi dalla loro sepoltura di marmo – volgessero lievemente la testa dal lato dell’Evangelo o da quello dell’Epistola, [...] sia che nel fondale delle vetrate, nei loro mantelli di porpora, o dell’azzurro oltremare che trattiene il sole, riempissero di colore i suoi raggi trasparenti, [...]; nel loro splendore, nella palpabile irrealtà, restano i donatori che avevano meritato la concessione d’una preghiera perpetua» ( La morte delle cattedrali). Non diversamente contempla Dante la storia raffigurata al vivo, che l’arte trasforma in presenza da una lontana storia biblica: «I’ mossi i piè del loco dov’io stava, / per avvisar da presso un’altra istoria, / che di dietro a Micòl mi biancheggiava » (X, 70-72). Il fascino inobliabile del Purgatorio è tanto nel commercio di intercessione e suffragio che lega le anime dei vivi a quelle dei defunti, quanto nel continuo trapassare la barriera della morte e dell’oblio che l’arte intraprende unendo i tempi umani all’eterno: «Intorno a lui [“i’ dico di Traiano imperadore”] parea calcato e pieno / di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro / sovr’essi in vista al vento si movieno» (X, 79-81). Il dialogo con Forese Donati dunque (canto XXIII), con Bonagiunta (XXIV), con Guinizzelli (XXVI) dilata il potere “vivificante” della poesia; più che stabilire priorità e successioni di fama e di prestigio – che pure Dante puntigliosamente annota – giova osservare quel prorompere palpitante di vita che dà carne e affetti a quelle ombre: «sì lasciò trapassar la santa greggia / Forese, e dietro meno sen veniva, / dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?”» (XXIV, 73-75), riportandole sul proscenio terreno, tra voli incantati di geometrie celesti: «Come li augei che vernan lungo ’l Nilo, / alcuna volta in aere fanno schiera, / poi volan più a fretta e vanno in filo, // così tutta la gente che lì era, / volgendo ’l viso, raffrettò suo passo, / e per magrezza e per voler leggera» (XXIV, 64-69). Non diversamente, nel presentare al canto XXVI, Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel (e nel porre in bocca a quest’ultimo tre terzine in provenzale che saranno care a T.S. Eliot), non tanto conta la certificazione del canone esibita dal primo: «“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno / col dito”, e additò un spirto innanzi, / “fu miglior fabbro del parlar materno. // Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti […]”» (XXVI, 115-119); bensì quel ravvivarsi, nel crogiolo dell’analogia, del mondo delle ombre e del creato, essendo ogni parvenza nell’unico grembo del Vivente: «Poi, forse per dar luogo altrui secondo / che presso avea, disparve per lo foco, / come per l’acqua il pesce andando al fondo» (XXVI, 133-135). È, direbbe Eugenio d’Ors, quella «naturalezza del sovrannaturale» che Dante riserva ai suoi più cari; come qui l’immagine tornerà parimenti in Paradiso per segnalare l’allontanarsi, silente e dolce, di un’altra figura familiare, quella di Piccarda Donati: «Così parlommi, e poi cominciò “Ave, / Maria” cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave» ( Par., III, 121-123). Identico raccoglimento, di limpidi affetti, è a noi richiesto come lettori, per ben seguire la poesia di Dante: «Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli, del quale / vivesi qui ma non sen vien satollo, / metter potete ben per l’alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l’acqua che ritorna equale» ( Par., II, 10-15).