domenica 26 febbraio 2023
L’era delle fazioni ideologiche è finita da tempo, eppure si continua a guardare il mondo con schematismi. Sul piatto ci sono temi che richiedono una visione multipla: ambiente, biotecnologie, pace
Manifestazione nelle Filippine nell'anniversario dalle "People Power Revolution"

Manifestazione nelle Filippine nell'anniversario dalle "People Power Revolution" - Ansa

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Le riflessioni che seguono sono un appello ai “chierici”, a quella strana genia che sono gli intellettuali di professione. In senso molto lato, quelli che dovrebbero apprendere il proprio tempo con il pensiero. E aiutarci ad apprenderlo. Un po’ la funzione che Hegel assegnava alla filosofia. E che essi largamente tradiscono per versioni d’ufficio e di convenienza della cronaca; o nel migliore dei casi di una storia di parte, che prende posizione solo per una parte della storia, e non sa vedere la storia degli altri, i loro torti e le loro ragioni.

È cosa nota, e Julien Benda lo ha pure annotato. La domanda che vorrei porre è se questo tradimento dei chierici – vuoi per bassa cucina di interessi personali, vuoi per (probabilmente e fino a un certo punto) più nobili motivazioni ideologiche – sia possibile esercitarlo ancora oggi. Beninteso: è chiaro che è largamente esercitabile e più che largamente esercitato. Il punto è che non dovremmo. Perché il nostro è un tempo che non consente più di essere pensato “in parte” o con occhi “di parte”. In termini cioè non “universali”, che non colgano almeno l’universale comune radicamento fondativo di tutti in una storia che ormai accomuna tutti in una sola cronotopia, in un tempospazio con il suo destino comune a tutti. In un lessico più corrente: la globalizzazione della “famiglia umana” in un solo spazio e in un tempo ubiquitario, uno spazio-tempo dove tutto dipende da tutto, e una postura di parte – politica, sociale, economica, ideologica, umana – sui nessi fondativi che intrecciano gli uni agli altri in un unico ambiente naturale e storico, può mandare tutti fuori binario, con a gambe all’aria; togliendo a un presente incompreso, non capito ogni possibilità di futuro.

Ortega y Gasset, nel 1914, poco prima del trauma della Grande guerra, quando ci si cullava nel crepuscolo della “sicurezza europea”, disse tutto in due righe, nelle Meditazioni del Chisciotte: «Io sono io e la mia circostanza, e se non salvo la mia circostanza non salvo neppure me stesso». Quella “circostanza” che da lì a poco avrebbe patito una guerra mondiale da cui non si è più ripresa, oggi è il pianeta, la cronotopia della globalizzazione che abitiamo tutti; e l’“io” siamo noi tutti che ci viviamo e dobbiamo sopravviverci. Per non tradire questo tempo che dobbiamo pensare, abbiamo bisogno di sentirci un “noi”, e un “noi” ambientato nella stessa casa, fatto di noi e delle condizioni che ci consentono di essere noi.

La Meditazione XVII di John Donne (1624) oggi ha una verità letterale: “Nessun uomo è un’isola, / intero in sé stesso. / Ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte della terra. / Se una zolla viene portata via dall’onda del mare, / la terra ne è diminuita, / come se un promontorio fosse stato al suo posto, / o una Magione amica o la tua stessa casa. / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo all’umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: / essa suona per te”. Si dirà: questo è poesia. Certamente, è poesia, ma nel senso dell’etimo del poiein greco: qualcosa da fare. Ma perché sia fatto, c’è bisogno che si aiuti a pensarlo. E il bisogno del pensiero dell’Oggi, della cronotopia che abitiamo è quello di porsi, prima di ogni divisione tra “destra” e “sinistra”, o magari ascrivibile ad un cerchiobottismo di “cendopo tro”, è di porsi come oikologia, dove l’oikos da pensare però non è solo l’ambiente naturale, ma l’endiadi di natura e storia come la circostanza tràdita in cui abitiamo, in cui ha sostanza esistenziale il nostro essere-nel-mondo nelle sue comuni radici fisiche, biologiche, morali, ora “accomunate” tendenzialmente senza distanza, neanche di tempi storici “locali” differenti. Per vederlo questo mondo “universale”, in cui siamo senza poterne saltare fuori, e farlo vedere agli altri, abbiamo bisogno di un’assunzione “bioculare”, non di destra o di sinistra; di una visione per così dire “naturale” delle dimensioni fondative del nostro esserci, giusta quella visione che la nostra biologia ci offre con due occhi, uno di sinistra, uno di destra, per mettere a fuoco le cose senza appiattirle, senza toglierci profondità oculare.

Il punto di vista operativo “di parte” nella pratica di mondo – politica, economica, sociale – viene dopo; aver assicurato al pensiero il “bene comune”, il piano comune condiviso, inaggirabile per tutti a pena di perdere il terreno stesso su cui poter avere un diverso punto di vista. Indico, e tiro a sorte, alcuni ambiti su cui abbiamo bisogno di non perdere il rapporto su quel che ci accomuna, che ci è condizione di sussistenza: l’ambiente come natura e storia dove teniamo i piedi ormai tutti insieme, e dove non possiamo “spaesarci” oltre misura, nella loro usura di consumo, come singoli e comunità; i modi in cui si viene alla vita e ci si resta riproducendola, le “strutture elementari della parentela” di Lévi-Strauss, che restano tali, evidenze elementari, anche in ambiente bio-tecnologico, meno fluide o fluidificabili di quanto pensino le sollecitazioni del gender; la pace, in una scena dove le leggi della vecchia fisica della potenza, dell’“invenzione” del nemico, del muovergli contro dove sta e da dove ci minaccia, non reggono più, non sono più sostenibili nella fisica della potenza post-atomica, dove – se non l’abbiamo – l’amico dobbiamo “inventarcelo”, andare a costruircelo come amico da nemico che era, perché un mondo della “guerra” come continuazione della politica con altri mezzi non è più nemmeno “operabile”, cioè praticabile, vivibile per gli uomini e per i popoli. Infine, la dignità umana.

Perché può esserci per gli intellettuali oggi un approccio diverso da quello espresso da Ernesto De Martino in una nota lucana, perché Cristo non si fermasse a Eboli, stesa dall’antropologo per i “cafoni” che “studiava”? Una nota, del 1952, con cui chiudo queste riflessioni: «Quando scendevo per le viuzze sconnesse del quartiere, uomini e donne uscivano dalle loro tane immonde e mi pregavano di dire di raccontare, di rendere pubblica la storia dei loro patimenti e della loro fermentante ribellione. Altre volte, quando mi accadeva di partecipare alla loro vita migliore, alla fraterna giocondità dei conviti contadini, ravvivata e ingentilita da quella vena di poesia che assai speso vi fiorisce in versi improvvisati, qualcuno mi diceva con orgoglio, vedendomi partecipe e a mio agio: “Dite, raccontate, che noi cafoni non siamo poi delle bestie, che quaggiù non c’è solo miseria”. Essi vogliono entrare nella storia non soltanto nel senso di impadronirsi dello Stato e di diventare i protagonisti della civiltà, ma anche nel senso che fino da oggi le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo del quartiere rabatano, e di affogare senza orizzonte di memoria nel fango o nello sterco delle sue sordide giornate. Essi vogliono che queste giornate senza luce siano notificate al mondo, acquistino carattere pubblico mediante il giornale, la radio, il libro e formino tradizione e storia. Essi vogliono che quel loro cercarsi in questo mondo di tenebre tenendosi le mani e chiamandosi “frate, frate” si costituisca in immagine altrettanto storica come gli affreschi della cappella Sistina o la cupola di Michelangelo. Ma essi vogliono anche che giunga al mondo la eco dei loro sforzi per emanciparsi, e dal fondo delle loro spelonche, deformi nei corpi logorati dall’umido, dalle tenebre e dalla fame, essi gettano sul viso di coloro che iniquamente li tengono in catene il verso della sfida: “ Nuie simme a’ mamma d’a’ bellezza”, noi siamo la giovinezza del mondo».

Su questo tema, l’altro uomo, può un intellettuale oggi, di destra, di centro, di sinistra, avere una sensibilità diversa? Perché Eboli dove Cristo si è fermato continua ad avere cento nomi, su tutte le carte del mondo.

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