Quando li vedi lì, alla fine del concerto, stretti sul palcoscenico, abbracciati per una fotografia da metter come sfondo sul computer, sorridi. E speri, dimenticando per un attimo le immagini drammatiche di Gaza che in questi giorni ti hanno riempito gli occhi e l’anima, che il futuro del Medioriente possa un domani essere nelle loro mani. Nelle mani di Ramzi che ieri lanciavano sassi contro i militari israeliani e che oggi imbracciano una viola. In quelle di Daniel che un giorno tremavano dopo un’accesa discussione con un compagno palestinese e che oggi fanno vibrare le corde di un violino. Mani che hanno imparato a stringersi, ad abbracciare, a tendersi verso l’altro. A produrre armonia. Quella della musica che i ragazzi della West Eastern Divan hanno sui loro leggii da dieci anni quando l’israeliano Daniel Barenboim e il palestinese Edward Said si sono inventati un’orchestra per far suonare fianco a fianco ragazzi i cui genitori si parlano solo attraverso il linguaggio della violenza. Domenica i musicisti della Divan sono tornati al Teatro alla Scala dove avevano debuttato nel 2006. Il clima, però, era diverso. Ieri qualche timida speranza di pace. Oggi solo la voce delle armi. «Penso che in tempi come questi dove la gente sembra obnubilata dall’odio sia ancora più importante suonare insieme per far capire che ci sono altri modi per risolvere i conflitti: i rapporti di amicizia che abbiamo stretto in questi anni tengono ancora oggi, nonostante la violenza attraverso la quale si parlano i nostri popoli» dice Nabeel Abboud Ashkar palestinese, ma citta- dino israeliano, violino nelle fila della Divan e direttore del Conservatorio di Nazarteh aperto due anni fa proprio dalla fondazione Barenboim-Said. «certo – aggiunge – anche noi discutiamo e spesso animatamente, ma crediamo nelal forza del dialogo». Nabeel e compagni, agli ordini della bacchetta di Barenboim, hanno entusiasmato il pubblico milanese – che, in piedi, li ha applauditi per un quarto d’ora – con un ricco programma : il Concerto per tre pianoforti di Mozart (solisti lo stesso direttore, Yael Kareth e Karim Said), le Variazioni per orchestra di Schoenberg, la Quarta sinfonia di Brahms e il trascinante bis con la sinfonia dalla verdiana Forza del destino. Barenboim, abituato a grandi orchestre come i Wiener o la Staatskapelle di Berlino non fa sconti: chiede disciplina, suono pieno, passione. I ragazzi – tra loro anche un giovanissimo violinista di soli 11 anni al quale Barenboim sorride sempre rassicurante – rispondono alla grande, frizzanti in Mozart, appassionati in Brahms, da brivido nell’italianissimo Verdi. Affiatati e complici. «Prima di iniziare a fare musica in questa orchestra – confessa l’israeliana Meirav Kadichevski, che tira un sospiro di sollievo dopo l’assolo all’oboe – avevo paura di tuto ciò che riguardava il mondo arabo: ora ho imparato a vedere le cose con altri occhi e ho capito che, nonostante le differenze culturali e sociali, dobbiamo costruire una strada che porti alla convivenza». Mentre le luci si spengono gli occhi di Ramzi Aburedwan – palestinese di Ramallah che oggi ha aperto una scuola musicale nel campo profughi, ma che da piccolo era diventato il simbolo della lotta del suo popolo tanto che la foto di lui che tirava pietre contro i militari israeliani era su tutti i muri di Ramallah – si fanno tristi: «Ora i miei amici israeliani torneranno in città, magari nel villaggio dove mio nonno viveva prima del 1948. Io farò ritorno al campo profughi dove la mia famiglia vive da sessant’anni». Ma Ramzi sa di poter contare sull’amicizia di Daniel Cohen che lo rassicura: «Dobbiamo andare avanti perché prima o poi, ne sono certo, tutti si convinceranno che la strada del dialogo è l’unica possibile».