Il jazzista Mauro Ottolini con la sua orchestra - Stefano Baldini
Un trombone sì sa è un tipo pesante, al limite della sopportazione. Ma quando parli del trombone di Mauro Ottolini siamo nella quinta essenza della leggerezza, del bello armonioso ed armonico. A bordo dell’Ottovolante, la sua storica orchestra che compie 20 anni, questa volta fa volare l’ascoltatore sopra terre poco battute, popolate di vecchie balere e antiche osterie. «È la musica leggera dei nostri nonni», dice, sornione, dal suo rifugio di Cavalcaselle del Garda, dell’ultimo cd-sequel, Il mangiadischi atto secondo, che spazia dagli anni ’40 de La nebbia «seguendo l’arrangiamento di un grande del jazz come il maestro Pippo Barzizza», fino ai ’60 della celentanesca Il tuo bacio è come un rock. In mezzo alle 21 tracce, spruzzate di Fred Buscaglione (Il Dritto di Chicago e Noi dur e di Reneto Carosone (Pianofortissimo). Superlativo in Mambo italiano, in cui Ottolini ci mette anche la voce, che graffia al punto giusto per ottenere un «sound che prova a riportare la gente alla nostra tradizione latina. Ma io non mi accontento di rifare il pezzo, non sono mica uno da cover. In ogni brano, sfacciatamente ci metto sempre il mio zampino da ricercatore.
Che sia Ma l’amore no o un pezzo alla tromba di Bix Beiderbecke, io seguo lo stesso studio filologico che mi deve portare alla fonte, all’origine di quella musicalità». Alla soglia dei 50 anni, li compie il 14 aprile, questo virtuoso della musica, avendo suonato con tutto il meglio del panorama jazzistico mondiale, si può permettere anche il lusso di fare quella che chiama «una piccola archeologia». Ottolini è un pilastro del jazz che va fiero della sua gavetta, «quella che oggi manca a tanti presunti fenomeni, che però, come appaiono subito scompaiono». Storia di un tarantolato, fin da bambino, dal trombone. «È lo strumento che mi ha fatto innamorare. Da piccolo ero partito suonando la fisarmonica nella banda di Peschiera del Garda e lì c’era un trombonista che solo a guardarlo rimasi stregato. Mio padre vedendo che non arrivavo con la mano fino in fondo alla coulisse mi comprò un trombone adattato alle mie dita e così ho iniziato a studiarlo, da autodidatta. Poi mi sono diplomato al Conservatorio di Verona e con regolare audizione entrai come trombonista nell’Orchestra dell’Arena».
Dodici anni di posto fisso, ma poi un giorno saluta l’Arena, e se ne va. «Dopo 500 repliche dell’Aida mi sono convinto che era tempo di passare alla mia musica. Alla notizia del licenziamento mio padre fu molto incoraggiante – sorride divertito –: “Mauro, guarda che andrai a suonare per la strada...”, disse. Io lo guardai e ridendo gli risposi: sì papà, ma per le strade di New Orleans... Papà è morto l’anno scorso, a parte quella battuta mi ha sempre incoraggiato ad andare avanti, ed era molto orgoglioso della strada che avevo intrapreso. Ad ogni serata degli Ottovolante apriva le migliori bottiglie della sua cantina, così che di quei concerti, con lui in prima fila ad applaudire, mi resta un dolce ricordo e il retrogusto d’Amarone o di Franciacorta».
Ottolini che è da tempo il miglior trombonista jazz italiano e tra i migliori nella scena internazionale, fece il suo esordio discografico a 19 anni, con un brano «raggamuffin», Affita una Ferrari. «Fu un successone quello, firmato dal mio primo gruppo, i Niù Tennici. Facevamo pezzi in dialetto veronese e aprimmo la strada ai veneziani Pitura Freska. Con i soldi inaspettati di quella hit da 100mila copie vendute mi comprai una vecchia golf». Con il primo disco tutto suo, era già sulla via del rap. «In tempi assolutamente non sospetti, nel 1998, con un rapper registrammo Otto Funk Tornavo in Italia dopo sei mesi a Los Angeles dove mi ero nutrito di acid jazz, roba tipo gli Incognito e così scrissi My fly pezzo che nel tempo ha spopolato nella playslist di Spotify. Allora non c’era ancora Internet ma il discografico Marco Rossi dell’etichetta Azzurra, uno sempre avanti anni luce, mi fece un contratto che parlava di supporti digitali. Quando poi Marco ha venduto quei pezzi me li ha pagati in aggiunta per fare il mio disco omaggio a Luigi Tenco (Tenco come ti vedono gli altri), il mio cantautore preferito».
Già prima del disco di Tenco per Ottolini la via parallela al jazz, con collaborazioni negli ultimi vent’anni che vanno da Trilok Gurtu a Tony Scott, è quella dell’arrangiatore delle voci pop, come Patty Pravo e Malyka Ayane o del cantautorato: Vinicio Capossela, Marco Mengoni, Giuliano Sangiorgi dei Negroamaro... «Il più jazz tra i pop? Brunori Sas mi piace molto, non è mai scontato, ho lavorato al suo ultimo disco Cip. Il più jazzista, per improvvisazione e creatività sarebbe Morgan, ma il suo ego lo porta continuamente fuori strada, non ascolta nessuno. Mi chiamò prima di quel Sanremo incasinatissimo in coppia con Bugo... Era la sera dell’ultimo dell’anno e mi fa: “Ascolta Mauro, mi devi arrangiare il pezzo per il Festival, oh mi serve per dopodomani”. Io stavo cucinando per venti persone e gli dico: Marco, per i miracoli rivolgersi da un’altra parte... Risultato? Morgan e Bugo persero la testa in eurovisione», sorride divertito, il trombone più stimato dal «Maestro», Paolo Conte.
«Dieci anni fa quando ho pubblicato Bix Factor, disco dedicato a uno dei mie grandi miti, Bix Beiderbecke, un giorno mi arriva a casa una lettera, sigillata dalla ceralacca. L’apro e con immenso stupore scopro che è scritta a mano da Paolo Conte che mi mandava a dire: “Trovo che nel tuo cd di Bix ci sono arrangiamenti capolavoro. Complimenti! Firmato: da Novecentista a Novecentista”. Quell’estate poi con Conte ci siamo conosciuti a Perugia, invitati entrambi a Umbria Jazz. Parlammo a lungo e abbiamo continuato a scriverci». Quasi nessuno ricorda più quel genio di Beiderbecke, per il quale Pupi Avanti, jazzofilo impenitente della storica scena bolognese, aveva girato il biopic Bix. Un’ipotesi leggendaria. «Per me la sua tromba è stata una folgorazione. Di Bix mi piace il suo linguaggio rivoluzionario, componeva cose straordinarie anche per il pianoforte. Erano gli anni ’20, quando ancora non c’era il jazz vero e lui ascoltava la musica contemporanea. E poi Bix con la cornetta era un assolista pazzesco.
Come pazzesco è Enrico Rava: ho suonato con lui per dieci anni e anche lui conosce a memoria tutti gli assoli di Beiderbecke. Una sera mentre lo ascoltavo ho pensato: Rava sa veramente tutto, Enrico fa parte della rara schiera di quei musicisti che non si ripetono mai». Lezione questa, «la più difficile da mettere in pratica» appresa da Benny Golson, «il quale mi disse: prova a fare 5 blues in do, uno dietro l’altro, con la stessa tonalità, e e poi vedi se hai sempre qualcosa di nuovo da raccontare». Mestiere del jazzista sempre alla continua ricerca di sperimentazioni, capace anche di suonare le conchiglie e inciderci perfino un disco, Sea shell. «Ho studiato con Steve Turre, il più grande suonatore di conchiglie al mondo e storico trombonista jazz. Steve venne a casa mia un’estate e mi insegnò a costruire una conchiglia, con la giusta imboccatura, altrimenti il suono non viene fuori. All’inizio infatti era difficile calibrare l’emissione, finché Vinicio Capossela mi chiama nella sua band per il tour del disco Marinai profeti e balene e mi chiede di suonare Madonna delle conchiglie. Provando e riprovando quell’estate ero finalmente pronto per le conchiglie del mio cd Sea shell. Musica per conchiglie che è stato adottato da Green Peace e a me hanno dedicato una conchiglia, la “Turritella Ottolini”.
Una delle cose da raccontare ai nipoti e che erediterà suo figlio Morris. «Ha 18 anni e suona la tromba molto bene, ma con lui sono stato chiaro: quando sarai pronto per un’audizione, se superi il test trombe dell’orchestra, allora bene, entrerai a far parte dell’Ottovolante... Umiltà e gavetta, sono stati il mio primo pane quando suonavo nei locali a 30mila lire a sera, Morris dovrà fare lo stesso percorso, mettere su la sua piccola band e magari il primo disco se lo autoproduce, come ho fatto io». L’umiltà dei grandi, che non hanno mai smesso di migliorarsi e soprattutto di sognare. «Il mio sogno nella custodia del trombone? Suonare con Winton Marsalis al Linconl Center di New York. Trovo che sia il jazzista più completo del ’900. Marsalis a 18 anni componeva e venne reclutato dai Jazz Messengers. Si è confrontato con la musica classica e ha spaziato su tutti i fronti del jazz e del blues, con esecuzioni da brivido. Qualsiasi nuovo progetto che fa il buon Winton è sempre di classe e per me è una guida: ogni volta che sono alla ricerca di qualche brano su cui lavorare, beh puntualmente scopro che lui c’è già arrivato... E questo allora mi dà la certezza che sto andando nella giusta direzione».