«Quando inizio a registrare una nuova canzone, ho già in testa l’idea di come dovrebbe suonare» spiega James Taylor a proposito del nuovo album
Before this world, nei negozi dal 16 giugno. «È raro, però, che il risultato finale rispetti le aspettative; anzi a volte rimango stupefatto da quanto si perda nel corso delle registrazioni rispetto all’idea iniziale. Ma stavolta no, stavolta sono completamente soddisfatto perché ciascuna delle dieci canzoni di
Before this world è venuta esattamente così come l’avevo immaginata». Non avrebbe potuto essere diversamente, visto che questa nuova fatica del “folker” americano arriva a tredici anni di distanza dal predecessore
October road, intervallata solo da un album natalizio, da due raccolte di cover e da due album dal vivo (
One man band e
Live at the Troubadour con Carole King). «Non vorrei sembrare troppo trascendentale, ma penso che la musica sia un’esperienza spirituale» spiega l’autore di
Carolina on my mind, 67 anni. «Sono convinto infatti che la canzone rappresenti un buon mezzo per sfuggire all’isolamento della coscienza e aprirci agli altri. Il pensiero umano funziona a meraviglia per colui che ne usufruisce, ma per sua natura tende all’isolamento delle persone. Quindi, la comunicazione diventa essenziale per farci capire che l’uomo non è al centro dell’universo e che il mondo è molto più articolato di come ce l’abbiamo in testa». Quel mondo che Taylor continua a girare da un capo all’altro. Sono pochi gli artisti americani che possono permettersi una band “all stars” come quella che accompagna l’autore di
Sweet Baby James tra distanze e latitudini. Solisti straordinari che hanno lasciato le proprie impronte digitali su centinaia di capolavori internazionali (compresi alcuni dischi di Vasco Rossi, Eros Ramazzotti, Pino Daniele) e che il cantante, sei Grammy e un posto nella Hall of Fame del Rock’n’Roll dal 2000, schiera in scena come emblema del suo status di grande “songwriter”. «Questa band costituisce la gioia della mia vita e suonarci assieme è un gran privilegio» ammette James Vernon Taylor, cento milioni di dischi venduti in quarant’anni, parlando di Michael Landau, chitarra, Jimmy Johnson, basso, Steve Gadd, batteria, Larry Goldings, tastiere, Andrea Zonn, violino, Kate Markowitz e Arnold McCuller ai cori. «Parte del mio successo lo devo a loro». La stessa formazione rinchiusa dal produttore Dave O’Donnell (già al lavoro in passato con Eric Clapton, John Mayer, Ray Charles) nello studio di registrazione casalingo che il cantautore possiede nel Massachusetts, assieme ad ospiti speciali come Sting e il violoncellista cinese naturalizzato americano Yo-Yo Ma, entrambi coinvolti nel brano che intitola l’album. «Yo-Yo suona pure in
You and I again, canzone romantica che ho voluto dedicare a mia moglie Kim» spiega Taylor, precisando che Kim, al secolo Caroline Smedvig, ex direttore marketing della Boston Symphony Orchestra, figura assieme al figlio Henry tra le pieghe di due brani ad alto contenuto domestico come
Angels of Fenway e il classico folk di Francis McPeake
Wild mountain Thyme. Intanto Taylor da domani è nuovamente in Italia per un tour che prende la strada all’Auditorium del Lingotto di Torino per poi proseguire alla volta di Roma, Firenze, Trieste, Padova e Milano. «L’Italia è uno dei posti in cui amo esibirmi di più» ammette lui. «In un mondo sempre più omogeneo e globalizzato, il fatto che qui da voi anche il borgo più piccolo e sperduto abbia una sua irrinunciabile personalità fa culturalmente di questo Paese qualcosa di straordinario e inarrivabile». Quanto al repertorio, Taylor dice di avere in scaletta tre o quattro brani nuovi più i classici di una vita. «Da tempo scrivere nuove canzoni mi viene difficile più difficile che nel passato, perché sento meno urgenza. In questi anni, tra l’altro, sono successe molte cose che mi hanno sviato dal comporre. Ma la musica rimane comunque al centro della mia vita e oggi, come quando ho cominciato (grazie anche alla
Apple dei Beatles che produsse il mio primo album), penso di non riuscire ad avere alcun controllo su essa».