Italiani, oh yes. Corri, salta, vinci. Due corpi che si abbracciano. Che si chiedono: cosa abbiamo fatto? Più alto, più veloce, più tutto: è stata la notte più sensazionale della storia dello sport azzurro. Altro che pallone, non c’è Mondiale che tenga, non c’è mai stata partita. Un’Olimpiade è oltre, è l’Everest, e l’atletica è il suo sherpa. Una medaglia d’oro resta per sempre, e due così valgono quello che nemmeno puoi pensare.
Marcell e Gianmarco, si chiamano così: si assomigliano poco, non ci assomigliano per niente. In tredici minuti si sono presi tutto, e l’Italia si è presa loro. Jacobs chi? Ma, certo: mai sentito, adesso però piangiamo di gioia. Che bravo. Figlio nostro, fratello di tutti. Saliamo sul carro, c’è sempre posto. E poi Tamberi, anzi Gimbo, perché ora è l’amico e l’idolo. L’asticella da scalare è di tutti, e per cadere c’è il materasso. Quello sì, vero simbolo d’Italia.
I due atleti italiani oro alle olimpiadi: Jacobs e Tamberi (a destra) - Reuters
Oro su oro, l’atletica che era pane raffermo e adesso è una torta con la panna. Cose mai viste. Esultiamo, l’orgoglio s’è desto: cinici e distanti all’incasso di una sconfitta, sempre splendidi davanti alla vittoria. Maestri di lacrima e retorica sotto al podio, cronicamente incapaci di imparare a perdere negli altri giorni. Che discorsi, non è adesso, non qui il posto.
Due italian boys, il bianco e il nero, due promessi sposi. Uno che si rotola in pista e si porta in gara il gesso della gamba per ricordarsi il dolore. L’altro papà giovane di tre bimbi, texano del Garda che non parla inglese. Due che vincono nell’estate lucida dello sport italiano: gli Europei di calcio prima, i 100 metri di corsa e il salto adesso all’Olimpiade: rigori, fortuna, ma anche gioco finalmente anziché catenaccio e contropiede. E l’incredibile ora. Abbiamo imparato a osare, a fidarci di quello che non sembrava possibile: da Londra a Tokyo è sempre azzurro il cielo sopra a qualcosa.
È una tregua felice, una ciambella in mezzo al mare. Sventoliamo il tifo e la soddisfazione per non pensare ancora a quello che ci ha imbruttito, e a quello che non sappiamo verrà. Ci riempiamo gli occhi e il cuore di quei due intrecciati in pista, braccia, gambe e tricolore, la soddisfazione che scorre a damigiane in Italia dove in tanti hanno pianto di gioia, mentre a Tokyo lo stadio si spegne lasciandoci esausti. È la fatica della sorpresa, lo sforzo di cercare di capire e di crederci.
Uno che in due giorni supera se stesso due volte, e che prima che inizi il terzo corre più veloce di Bolt. Nei 100 metri, non “una” corsa ma “la” corsa. La gara più importante del pianeta, da sempre vietata agli umani della velocità. L’altro che appoggia il gesso per terra, scala la gravità per arrivare dove nessun italiano è mai stato e si sente dire da un giudice che sì, l’oro può dividerlo con l’avversario che ha fatto come lui. Uno per uno, e felici tutti. Lo sport si inventa anche questo quando non sa più cos’altro dire. A noi invece non chiederanno mai dove eravamo, ma se c’eravamo. E se, come sembra, è stato tutto vero.
Ci sarà tempo per svegliarsi, per realizzare finalmente che molto è cambiato ma tanto resta quello che è. Piacciono, insegnano, indicano la strada, ma sono Giochi questi. Guardiamoci bene, non scherziamo. Jacobs e Tamberi, d’accordo, l’Olimpiade e il medagliere gonfio. Ma l’Italia da oggi non è improvvisamente il Paese più veloce del mondo, e nemmeno quello che salta più in alto. Ci siamo presi la gloria, anzi loro se la sono meritata e presa. Noi godiamo di oro riflesso, e restiamo quelli che eravamo. Con le nostre divisioni e poche medaglie, e l’impresa di vivere ogni giorno in un mondo dove correre spesso non basta.
Da ieri però qualche consapevolezza in più l’abbiamo: che ci sono uomini incredibili da imitare, che se possiamo essere vincenti nello sport da misti, bianchi, neri, grassottelli, umili ed ex depressi, dimenticati e coraggiosi, complessati e diversi, possiamo provare a esserlo anche altrove.
Comunque finisca, è l’emblema di un’Italia nuova quella che tornerà da queste Olimpiadi, mescolata e ricca, come la sua squadra sfumata in tutte le gradazioni di colore, che ha corso, saltato, giocato e sudato forte delle sue origini sparse in 17 Paesi diversi e una bandiera sola, con il 38% dei suoi atleti multietnici (nell'atletica), con religioni, idee, inclinazioni, vite e storie differenti. Facce belle, anche quando perdono, facce che sorridono per un bronzo che non è peggio dell’argento ma meglio del quarto posto, che accettano i verdetti e guardano avanti. Uomini e donne che stringono la mano a chi li ha battuti, che non protestano, che cadono e si rialzano perché per molti ci sarà ancora un’altra Olimpiade. E per chi non l’avrà, ci sarà questa da ricordare.
Eccoli lì allora, Jacobs come Tamberi, diversi ma uguali, che si abbracciano e si chiedono cosa hanno fatto. È la fotografia di una generazione di fenomeni che si è tenuta dentro l’energia, insieme alla paura. E l’ha esplosa alla fine, buttandoci sopra anche un’inaudita voglia di felicità, che quando supera l’incredibile, diventa leggenda. Ecco cosa hanno fatto. Italiani, oh yes.