l’italiano della MotoGp Dovizioso e lo spagnolo Marquez
Arriba España. Si accende la scintilla, è sempre faccia a faccia duro, senza esclusione di colpi, come sempre quando ci siamo noi contro di loro. Italia, Spagna. Rivalità recente, ma fortissima. Sono i nostri gemelli diversi. Ci guardiamo allo specchio e - sorpresa - scopriamo che l’immagine riflessa è quella degli spagnoli. Juventus-Atletico Madrid, stasera all’Allianz Stadium di Torino, ottavo di finale di Champions. Dentro o fuori. La Juve ha perso l’andata 2-0, serve l’impresa. Parliamo di “Cholismo” - e già tremiamo - e sulle “Huevas” evocate da Simeone all’andata abbiamo costruito trasmissioni e scatenato dibattiti: parliamo di loro per non guardare cosa facciamo noi. La storia dice male ad Allegri, in saldo negativo nel confronto con club spagnoli. E poi, nel solco di un torneo che i bianconeri non vincono dal 1996 (ai rigori, contro l’Ajax, comandava Lippi): la Juve ha perso le ultime due finali di Champions contro Barcellona e Real Madrid. La Juventus si affida a Cristiano Ronaldo. Pensaci tu, CR7. Scusate: non è stato preso proprio per questo? Cristiano che in Champions è andato a segno una sola volta, all’inizio di novembre, gol inutile perché quella sera di quattro mesi fa vinse il Manchester Utd. Latitanze inconsuete alle sue latitudini, in attesa di una notte che lo riconcili con il suo status di superstar. È la notte della tregua dei tifosi bianconeri (e proprio Cristiano in versione social chiama a raccolta il popolo Juve), mentre Allegri allontana l’idea che - a fronte di una uscita dalla manifestazione - la stagione possa essere «un fallimento». Sensazione: siamo al passo d’addio, dopo cinque scudetti di fila (quattro più quello che sta prendendo forma ora con il +18 sul Napoli) e due finali di Champions toppate, Allegri si appresta a salutare la compagnia. La sfida con l’Atletico Madrid dirà come.
Ipotesi di 3-5-2, fuori Barzagli e De Sciglio, più Mandzukic di Dybala, per il giovane Kean è ancora troppo presto. Ma se in campionato la Juve va come una bambina felice sullo scivolo dei desideri, il cammino in Champions parla di tre sconfitte in sette partite. E nessuno si stupisca se gli spagnoli - negli ultimi tempi - stanno facendo dell’Europa la loro terra di conquista, come succedeva ai club italiani nel favoloso decennio che scavallando gli ’80 scivolava verso i ’90, quando si vinceva molto e si vinceva tutti. Nella top 10 del Ranking Uefa ci sono quattro squadre spagnole (Real, Barcellona, Atletico e Siviglia) e una italiana ( Juventus). Questione di d’acquisto, bilanci, merchandising. In Europa l’ultima squadra italiana a vincere qualcosa è stata l’Inter, nel 2010, anno del Triplete. Dal 2010 ad oggi le squadre spagnole hanno vinto sei delle ultime otto edizioni della Champions League: quattro volte il Real, due il Barcellona. Non solo: pure l’Europa League è affare loro, è una coppa che si sono spartiti Atletico Madrid e Siviglia, tre vittorie e testa. E noi rimaniamo inchiodati ai rimpianti. Dal 2000 ad oggi la metà delle coppe tra finali di Champions League, Europa League e Supercoppe Europee se le sono prese le squadre spagnole. Praticamente una sua due. Cabeza o cruz? Vincono sempre loro.
La Liga - oggi - ha il fascino che aveva una volta la serie A. Solo pochi anni fa rischiava il collasso e oggi si autofinanzia. I club spagnoli formano i calciatori, li vendono e ne comprano di nuovi. È di questo ricambio che si alimenta il calcio spagnolo. La Spagna è il quinto paese nel mondo per quanto riguarda l’esportazione dei propri giocatori. È un Brasile, però virtuoso e che funziona nei due sensi, in entrata e in uscita. Nello stesso periodo l’Italia ha avuto un saldo negativo di quasi 250 milioni. In Spagna il presente è il piedistallo del futuro. Prendete le seconde squadre: da noi un fallimento totale dopo la fuffa di parole dette in estate, da loro sono funzionali al progetto di crescita complessiva del movimento. Quando la Spagna vinse il Mondiale nel 2010 ben venti dei ventitrè convocati avevano militato per un certo periodo nelle seconde squadre. Prima e dopo: due Europei in bacheca (2008 e 2010). Nell’Italia del calcio i giovani invecchiano nell’attesa di qualcosa.
Poi qualche soddisfazione ce la prendiamo, ma sono unghiate alla dittatura spagnola. Domenica, Motogp Qatar, trionfo di Dovizioso, ma forse no: nuovo reclamo contro la Ducati, vittoria in bilico. Il primo posto a Losail rimarrà in sospeso ancora qualche giorno, in attesa di conoscere il verdetto della Corte d’Appello FIM sullo “spoiler” applicato alla ruota posteriore della Ducati. Anche nella Moto Gp, quante sfide, quanti incroci, quante volte noi e loro. Negli ultimi quindici anni c’è stata in Spagna una fioritura di talenti straordinaria. Marc Marquez (7 titoli), ma prima Daniel Pedrosa, Jorge Lorenzo, Maverik Viñales. Il dopo Valentino (ultima vittoria nel 2009, con lo spagnolo Gibernau tra i suoi avversari più tosti) se lo sono pappato loro. Dal 2012 ad oggi la bandiera che sventola sulla Moto Gp è solo quella spagnola. Negli altri sport vale la stessa regola. Que viva Spagna. Prima delle due vittorie degli Stati Uniti, l’ultima nazionale europea a vincere il Mondiale di basket è stata quella spagnola di Paul Gasol (2006, Giappone). Due delle ultime quattro edizioni degli Europei (2011 e 2015) le ha vinte la Spagna. Per trovare un nostro successo bisogna tornare indietro di 20 anni (1999, a Parigi battemmo proprio la Spagna). La Spagna di pallanuoto maschile si è giocata la finale dell’Europeo con la Serbia, noi non pervenuti. Nel tennis: loro Nadal, noi rimpianti e campioni mai diventati tali. Formula 1: loro Alonso, campione nel 2005 e 2006, per trovare un pilota italiano nell’albo d’oro bisogna tornare negli anni ’50 (Ascari). Ciclismo: dal duemila ad oggi, al Tour de France, loro Pereiro, Sastre e Contador, noi Nibali. Non c’è gara. Anzi sì. Stasera, Juventus- Atletico Madrid, per ribaltare il 2-0 dell’andata, per ribaltare la storia e provare a scriverne una di nuovo. Stavolta in italiano, non in spagnolo.