In avvio, infatti, venti minuti bastano e avanzano per trasformare un dubbio in certezza. Chiamata a fare gioco contro un avversario ben messo in campo, compatto nel suo 4-4-2 molto lineare, privo di particolari varianti, l’Italia denuncia i suoi limiti di costruzione, di capacità di prendere in mano il centrocampo, e con esso la partita. Dalla cintola in su, ben poco o addirittura niente, paradossale che le timidissime, tremolanti fiammelle vengano accese proprio dall’uomo teoricamente fuori ruolo, Alessandro Florenzi. Dall’altra parte, Candreva non parte mai, Parolo e Giaccherini tamponano ma rimangono lì, non ripartono, non vanno a proporsi nella profondità dove nè Bonucci, nè De Rossi provano a indirizzare palloni giocabili. Il c.t. svedese Hamren ha trovato la maniera più semplice per depotenziare i due play-maker arretrati dell’Italia, vale a dire schierare due attaccanti centrali, il collega belga Wilmots non ci era arrivato: il lontano “paisà” John Guidetti fa cabotaggio dalle parti di Ibrahimovic, De Rossi deve preoccuparsi più di offrire rinforzi al trio arretrato juventino che di fare gioco. E i tentativi di ripartenza, le cosiddette uscite con la palla ne risentono parecchio. Un mezzo tiretto di Florenzi, una situazione potenzialmente interessante innescata da Eder, altrimenti ai margini del match come il suo collega di reparto Pellé: questo è quanto produce l’attesissima Azzurra in 45 minuti di gioco chiusi come non ti aspetti, non tanto per lo 0-0 parziale, quanto per l’atteggiamento prudente (se non addirittura molle: del pressing, del “contismo” nemmeno l’ombra), per le posizioni più da 5-3-2 che da 3-5-2 (finezza, ma significativa), per il dato del possesso palla che vede la Svezia in maggioranza relativa.
Il compendio dei primi 45 minuti è ampiamente sufficiente per scatenare il potenziale c.t. che – vuole la nota massima – alberga più o meno segretamente in 50 milioni circa di italiani: gli indiziabili di sostituzione abitano certamente in attacco e in mezzo, servono come minimo più partecipazione, più dinamicità. Antonio Conte, tuttavia, è l’uno fuori dai 50 milioni, ed è allenatore vero. Vede e provvede, evidentemente con un supporto vocale importante negli spogliatoi, e nella ripresa almeno tutta la linea mediana degli azzurri ricomincia seriamente a fare il suo mestiere. Esterni più alti e più coraggiosi, un po’ di pressione ai portatori di palla svedesi, che chiaramente denunciano a loro volta livelli non proprio da università del calcio. Solo davanti qualcosa continua a non calciare: Pellé lancia qualche debole segnale di risveglio, eppure è proprio lui il primo epurato dal c.t. Entra Simone Zaza, protagonista assoluto del pre-europeo. Più vivacità, mossa per la fiammata finale? Tutto rimane nella teoria, perché l’Italia torna a marciare a strappi, a balbettare: Zlatan Ibrahimovic, pur pescato in fuorigioco, manda incredibilmente alto un pallone solo da spingere in porta, poi, durante la lunga discesa verso il fischio finale, ecco il primo lampo improvviso: il cross di Florenzi, la testa di Parolo spuntata nei pressi del secondo palo. La sfera va a sbattere contro la traversa, e allora suona forte il segnale che forse vale la pena di spendere le ultime energie, di provarci. All’87’, l’assolo dell’oriundo considerato fino all’immediata vigilia dell’Europeo il convitato di pietra, l’oggetto misterioso. Eder va, e con lui l’Italia. Siamo già seduti al tavolo che conta, e dopo una gara così, non proprio da sogni del pallone, vuol dire molto.