Una storia di cuoio come quella di Arnór e Eiður Guðjohnsen forse non sarebbe uscita neppure dalla penna del loro connazionale Hallgrímur Helgason, autore del fantastico 101 Reykjavík( Guanda). Sì perché in Islanda, anche il calcio si tinge dei colori tenui e romantici della saga familiare. Arnór, classe 1961, è stato il primo vero prodotto calcistico esportabile da quest’Isola di appena 334mila abitanti. Una Firenze fatta nazione, in cui Arnór è cresciuto dribblando pupazzi di neve e imparando a stoppare il pallone sui campetti ghiacciati, vulcanici, costellati di buche, con un soffione boracifero piazzato magari proprio all’altezza del dischetto del calcio di rigore. Eppure il bomber Guðjohnsen senior, partendo da quest’Isola di pescatori, falegnami e canta fole è riuscito a fare del calcio un mestiere. Un professionista partito ragazzino dalla terra dove splende il sole anche di notte. Non era ancora maggiorenne infatti quando i dirigenti belgi del Lokeren lo vennero a prendere al Vikingur, il club di Reykjavík dove Arnór era nato e cresciuto. In Belgio tutti lo ricordano ancora per essere diventato il primo islandese a conquistare la corona di capocannoniere con la maglia dell’Anderlecht con cui vinse tre titoli nazionali tra il 1983 e il ’90.
Arnór, per il popolo islandese semplicemente “Iceman”, continuò a vincere in Francia, scudetto 1991-’92 con il Bordeaux, poi andò a svernare in Svezia e infine si ritirò a quarant’anni suonati dopo le ultime grandinate di reti realizzate in patria, con l’Ungmennafélagið Stjarnan. Una carriera impreziosita da quasi vent’anni di militanza con la sua nazionale che gli strappò un pianto commovente in diretta. Il 19 novembre 2013, “Iceman” si sciolse nella commozione. Costretto a commentare la sconfitta ai playoff della sua nazionale: a un passo dall’apoteosi, la Croazia aveva spazzato via il sogno della partecipazione al primo Mondiale (Brasile 2014). Arnór era più sconvolto della notte della finale di Coppa Uefa 1984, Anderlecht-Tottenham, quando dal dischetto sbagliò il rigore decisivo regalando il trofeo agli inglesi. Al fischio finale dello psicodramma popolare con la Croazia scappò via dalle telecamere lasciandosi sfuggire: «Ho paura che questa sia stata la mia ultima partita con l’Islanda».
Sembrava la scena di un film con la sceneggiatura degna di Hannes Halldórsson, classe 1984, che quando non va in porta con la nazionale d’Islanda se ne sta dietro la macchina da presa: è un regista cinematografico. Il regista-portiere che con 27 interventi può vantare il record di parate agli ultimi Europei di Francia 2016. Vent’anni prima, Halldórsson era un bambino ma se avesse potuto il primo docufilm lo avrebbe girato sicuramente il 24 aprile 1996. Al minuto 62 di Estonia-Islanda, papà Arnòr lasciava il posto al subentrante Eiður. Quando suo padre aveva debuttato in nazionale Eiður aveva appena un anno, e più o meno alla stessa età per lui si stavano aprendo gli stessi scenari internazionali. Quelli del Valur, il suo club d’origine, fecero accomodare gli emissari del Psv Eindhoven che se lo portarono via di corsa. Il talento c’era tutto, attaccante di razza per linea paterna, ma il destino gli fu avverso. Si ruppe una caviglia e la società olandese stracciò il contratto. Guðjohnsen ripartirà dal KR Reykjavík, ma sarà una breve parentesi prima di riapparire sui palcoscenici luminosi della Premier. Al Bolton e poi al Chelsea, con Josè Mourinho che lo considerava una pedina fondamentale e che a distanza di anni lo rievocherà alla vigilia della finale di Champions Inter-Bayern Monaco, con i voli aerei annullati per l’attività di un vulcano in Islanda. «Van Gaal è preoccupato per l’arbitro? Io per Guðjohnsen, il vulcano islandese».
Eiður è entrato nel cuore dello “Special One” ma anche di Pep Guardiola che lo ha allenato al Barcellona in cui ha collezionato 114 partite e 19 gol. Ma è la nazionale la casa di Eiður, il recordman dei bomber con la maglia dell’Islanda, 26 reti. Come lui nessuno ancora. Pur di essere presente ai primi Europei di calcio per la sua nazione, alla soglia dei quaranta (li compie il prossimo 15 settembre) ha continuato a giocare e a tenersi in forma in Cina (Shijiazhuang Yong), poi nel campionato norvegese (Molde) fino all’ultimo approdo indiano del Pune City. Guðjohnsen jr ha vissuto scampoli di gloria partecipando all’impresa storica di France 2016: la vittoria sull’Inghilterra agli ottavi di finale. Un successo quel 2-1 che fece rimbalzare in tutto il mondo l’immagine festosa di un popolo danzante al ritmo plaudente del Geyser Sound. Perché questa è un’Isola nel pallone. «In Islanda c’è un allenatore qualificato ogni 500 abitanti e il 7% della popolazione è un calciatore “registrato” (in Italia la percentuale viaggia intorno al 2%)», spiega Fulvio Paglialunga nel suo saggio calcistico (vedi recensione libro, ndr).
Numeri che sono lievitati negli ultimi quindici anni, quando con un piano statale in Islanda sono stati costruiti impianti di calcio anche sui fiordi: campi riscaldati, in sintetico e indoor che hanno avuto il merito di sanare la terribile piaga dell’alcolismo giovanile. È il programma di educazione sportiva che hanno seguito i coetanei di Svein Aron, il 19enne, primogenito di Eiður, ovviamente attaccante, in forza agli islandesi del Breidablik Kópavogur. Svein Aron sogna una chiamata per Russia 2018 da parte del ct Heimir Hallgrímsson. Intanto c’è già chi scommette sul “piccolo grande” Guðjohnsen. Daniel Tristan, il secondogenito di Eiður, 11 anni, è già la stellina della “cantera” del Barcellona. Dalla Catalogna arrivano notizie di giocate e gol strepitosi per la sua età. Insomma, la saga dei Guðjohnsen sembrerebbe infinita e con essa forse anche quella del pallone sotto il cielo d’Islanda.
Le tre generazioni dei Guðjohnsen in campo spiegano l’ascesa di un’Isola calcistica che dopo Euro 2016 è pronta per Russia 2018
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