La scrittrice cilena Isabelle Allende - .
Come il suo romanzo di esordio La casa degli spiriti, capolavoro del realismo magico che compie 40 anni, Isabel Allende ha scritto il suo ultimo romanzo, Violeta , in stato di grazia. «È venuta da sola – dice – con la stessa agilità e naturalità, con l’allegria di raccontare che prova chi ascolta e legge». A ispirarla è stata la madre. «Dopo la sua morte, tre anni fa, a 98 anni, mi dicevo: devi scrivere di lei, è tutto nelle lettere. Ma ero troppo vicina emotivamente per farlo. L’idea è maturata pochi mesi dopo, nell’isolamento per il coronavirus nel marzo 2020, un secolo esatto dopo la nascita di mia madre, in piena epidemia spagnola. Mi è sembrato un circolo poetico». «Sono venuta al mondo un venerdì di tempesta nel 1920, l’anno della peste», l’incipit della narrazione.
Francisca Llona Barros, l’amata mamma 'Panchita', con la quale la scrittrice cilena ha mantenuto una corrispondenza quotidiana - 24mila missive - durante l’intera vita, non è Violeta del Valle, la protagonista del romanzo in uscita per Feltrinelli, nella traduzione di Elena Liverani (pagine 368, euro 20,00). Ma condivide con lei «la voce intelligente e ironica», l’epica femminile, le riflessioni sulla libertà, l’amore, la lotta per i diritti, l’affresco storico di un’età convulsa fra due pandemie. «Mia madre era una donna straordinaria, non ha però potuto mantenersi da sola, prima sotto la tutela del padre poi del marito. Questa libertà la do a Violeta, come lei forte, visionaria, audace, ed anche con il fiuto per gli affari, perché non c’è femminismo senza indipendenza economica», afferma l’autrice in lingua spagnola più letta al mondo. È la prima a collegarsi per la gremita conferenza stampa virtuale dalla sua casa a Sausalito, nella baia di San Francisco, il suo hogar dal 1988, anche se - assicura - «ho sempre il Cile sotto la pelle».
Seppure mamma Panchita, già anziana, non leggeva più i suoi romanzi, Isabel Allende è convinta che «le sarebbe piaciu- to ascoltare dalla mia voce quest’ultimo libro e, se avesse vissuto un po’ di più, assistere ai cambiamenti interessanti avvenuti in Cile». «Era ora che i vecchi bacucchi se ne andassero a casa a giocare al bingo », rincalza. Violeta ha più di un’eco della stessa autrice. «C’è la mia memoria, l’esperienza personale, il tempo e il luogo che abbiamo condiviso: il XX secolo in America Latina. Tuttavia, viene sempre il momento cui bisogna uccidere e far fuori il personaggio», dice con amorevole ironia l’autrice di Ines dell’anima mia. «La forma non poteva che essere di diario epistolare, per vicinanza al lettore». È la voce di una nonna - isolata per il contagio rivolta all’essere più amato, il discolo e ribelle nipote Camilo, che Violeta ha dovuto allevare da piccolo, divenuto poi sacerdote. Un personaggio ispirato al gesuita cileno Felipe Berríos del Solar, un attivista sociale che lotta contro disuguaglianza e segregazione.
«È un mio caro e vecchio amico che lavora con i poveri in una discarica al nord del Cile. Mi sono ispirata a lui, in carne e ossa», spiega l’autrice. E a lui ha dedicato il romanzo, assieme a suo figlio, Nicolas, e alla nuora Lori, «i pilastri» della sua vecchiaia. Prima femmina dopo cinque maschi, Violeta viene al mondo quando il virus dell’influenza spagnola, «che attaccava con la voracità di tigre», sbarca sulle coste cilene. Dall’infanzia di bambina coccolata e selvaggia, la sua vita si vede alterata dagli eventi che incrociano la sua esistenza: la morte del padre durante il crac del ’29, la Seconda Guerra Mondiale, l’esilio nel continente latinoamericano. Le alterne vicende della famiglia, costretta a lasciare l’elegante vita urbana per trasferirsi nell’estremo sud continentale, dove Violeta conosce il suo primo amore. E, poi, gli anni dorati della mafia nella Cuba di Batista, la lotta del movimento per i diritti delle donne e il suffragio universale, le dittature degli anni 70 in Cile e Argentina, i voli della morte, la famigerata scuola di Meccanica.
Sconvolgimenti politici e sociali, che solo con il tempo Violeta impara a decifrare, intervallati ai ricordi dei tormenti amorosi, dei tempi di povertà e di benessere, dalle gioie ma anche delle terribili perdite e lutti: la morte della figlia Nieves, la madre di Camilo, della sua istitutrice Miss Taylor, di Roy, uno dei suoi amanti. «Dominazione, potere, ambizione, avidità: nel romanzo c’è tutto ciò che muove il mondo e che a volte l’amore corregge », rileva l’autrice di Lungo petalo di mare. «Al centro di tutti i miei romanzi ci sono le relazioni umane e la forza più potente di tutte è l’amore, l’unica capace di farci compiere atti eroici», assicura la scrittrice, alla soglia degli 80 anni. «Purtroppo continuo a essere un’appassionata romantica, come a 20 o a 60 anni. Mi sono sposata per la terza volta a 77 con un signore polacco col quale abbiamo nulla in comune, ma per la pandemia viviamo da due anni un’ininterrotta luna di miele. E, se vivrò ancora, è possibile che mi sposi di nuovo», si schernisce.
Un ottimismo indomito in una società sempre più ripiegata in se stessa per la diffusione dei contagi e la polarizzazione che impera nel dibattito politico e culturale. «Nessun tempo passato è migliore», afferma. «Il mondo evolve e avanza, anche se non in linea retta. La generazione giovane non crede più nelle istituzioni perché non ne può più della situazione in cui versa il pianeta e di una società patriarcale. Mi entusiasma la nuova ondata delle donne al potere. Sole siamo vulnerabili, assieme siamo invincibili. Bisogna avere fede nel futuro».
Da scrittrice di romanzi storici, la Allende rifugge la riscrittura della storia o la rimozione delle statue, che rappresentano gerarchie razziali o coloniali. «Il coraggio non sta nel rimuoverle, ma sarebbe piuttosto nell’insegnare la storia con le voci degli sconfitti, delle donne, dei popoli indigeni, dei più poveri, di tutte le voci che sono state silenziate». Per questo, convinta che il suo impegno letterario sia «inseparabile dalla giustizia, dall’uguaglianza e dall’inclusione», Isabel Allende rifiuta in pieno anche la polemica messa al bando femminista di Pablo Neruda, perché in Confesso che ho vissuto ammette di aver violentato una donna. «Bisogna separare l’opera dalla persona», sostiene l’autrice di Donne dell’anima mia. «La storia personale si può rivedere ma l’opera non si può cancellare». Da scrittrice che crea universi attraverso le parole, con quale parola descriverebbe il tempo che stiamo vivendo?, le chiediamo. «Cambio», replica senza esitare. «Il cambiamento è sempre turbolento, confuso, imprevedibile, e fa paura. Ma è la parola che più connota questa nostra epoca».