Attore comico, fisarmonicista e autore di canzoni per bambini, Carlo Pastori fa teatro e cabaret da 20 anni. È stato nel cast di Zelig dal 2000 al 2003 con i «Martesana in corpore sano», insieme a Claudio Bisio, Flavio Oreglio, Ale&Franz, figurando tra gli autori dello spettacolo. Poi, quando
Zelig è diventato un cult della tv trasferendosi dalla piccola sede milanese di viale Monza, alla maxi tenda del Circus di Sesto San Giovanni e poi agli Arcimboldi, Pastori ha lasciato per dedicarsi solo al teatro.
Perché questa scelta?Zelig per me era il gusto di lavorare insieme. Allora si respirava la stessa aria del Derby, lo storico cabaret milanese. In quegli anni le telecamere erano lì per rubare ciò che si faceva sul palcoscenico. Avevamo I Gufi come riferimento, nel nostro show entravano Balasso, Cirilli, Cremona, Paolo Rossi. Poi, col successo della trasmissione, ogni artista cercò di avere il suo share, subentrarono anche interessi pubblicitari. Diciamo che Zelig è diventato un... neon, a luce fredda: ognuno brilla per sè, con grande cura solo alla propria performance. Ma il teatro è un’altra cosa, non a caso in inglese recitare si dice play, come giocare: è un piacere!
Si è pentito di avere fatto tanta tv?No, io non sputo nel piatto dove ho mangiato, ho accolto la tv a braccia aperte per poter lavorare in teatro. Ma ho un immenso piacere a raccontare storie insieme ad altri. Noi della Martesana eravamo il giocattolo di lusso di Gino e Michele, ci dedicavano un pomeriggio intero per le prove mentre gli altri scalpitavano.
Nel frattempo la comicità in tv è diventata anche volgare...Non è questo il punto. Si può essere volgari ma interessanti, come qualche volta è Benigni. Qui, invece, siamo di fronte a un impoverimento. Si sta raschiando il fondo, si cerca solo di trovare il tormentone giusto, il personaggio buffo, la faccia. Far ridere è diventato solo questo. Non si tratta più di arte comica.
Cosa fa lei adesso?Sono direttore artistico del teatro di Limbiate. Punto al bello. Quando recito mi piace raccontare storie. Come Jannacci. Con grande rispetto e deferenza inserisco sketch di Walter Chiari nei miei spettacoli. Mi piaceva la sua energia, l’ironia, la capacità di affabulazione.
Dove possiamo trovare tracce di Walter Chiari?Le scenette delle pastiglie e del sarchiapone le abbiamo infilate, per esempio, in
Angli o angeli?, presentato al Meeting di Rimini: ci sono servite per rendere l’idea della leggerezza con la quale Chesterton prendeva la vita.
Ma quale messaggio le interessa comunicare?Uso la comicità prima di dire cose importanti. Mi interessa che le persone si riabituino ad ascoltare e a guardare piuttosto che a sentire e a vedere.
E l’amicizia, il lavorare insieme?Non è necessario essere amici per fare spettacolo, ma questo aiuta. Oggi purtoppo lo spettacolo è diventato una gara. Come i talent show: io vinco e tu perdi. Salta fuori gente brava, ma c’è il rischio che diventi un fuoco di paglia. Io so che si può fare una cosa bella senza essere io contro di te, senza buttarsi dal palco l’uno con l’altro. I talent show sono devastanti. L’arte non è uno sport.
E i bambini? Lei ha scritto molte canzoni per loro...Sì. E ho capito che le canzoni sono più grandi dell’autore. Ricordo una volta in un mio spettacolo un bimbo di 3-4 anni, ancora non parlava. A un certo ha comincato a dire "aiuto dottore!" ripetendo le parole di una mia canzone che aveva ascoltato tante volte. Il padre, sconvolto, uscì dal teatro per gridare la sua sorpresa: il figlio aveva parlato per la prima volta, e non aveva detto "mamma" nè "papà"...