Il Terror Háza a Budapest - WikiCommons
Poco più in là della piazza Oktagon, tra una bancarella di kürtoskalács (i cannoli ungheresi) e un ufficio di cambio, Budapest si trasforma nel secretaire che custodisce lo spaccato di una casa delle bambole molto speciale. È la prima immagine che viene in mente pensando all’elegante palazzo residenziale che ha attraversato la storia del secolo passato. I suoi piani sono la dissezione di un corpo dalle fisiologie gerarchiche, mappa 3d ante litteram dei meccanismi semplici e oscuri attraverso cui il quotidiano può mutare nell’orrore, in compagnia di funzionari irrigiditi e solerti che nella peculiare ricetta sovietica sommavano ambizioni sfrenate di carriera alla durezza delle campagne da cui provenivano. La relazione tra persone, sociale o di parentela qui svaniva progressivamente al salire o al scendere di un piano. Il Terror Háza, come chiamano il palazzo, ha un grande merito: l’ipocrisia non resiste alle sue scale che attraversano inferno e purgatorio, il paradiso era esclusiva pro tempore dei burocrati, demoliscono ogni paravento del nostro sentirci incolpevoli a priori, osservatori da lontano. Si resta così, come istupiditi.
Perché il disgusto, lo sdegno, la vergogna, lo scandalo, tutte le armi del benpensante ipocrita, perdono la ragione d’essere di fronte alla evidenza che il Terror Háza è una casa come le nostre, che le persone sono persone normali come me e te, che il diavolo non ha il forcone, magari invece inforca occhialini da intellettuale e prende il caffè o gioca a carte fumando un sigaro mentre accanto la forca in due metri quadri finisce qualcuno nel silenzio di convulsioni sempre più deboli accompagnate dalle deiezioni della resa finale. Questo palazzo non è prerogativa unica di Budapest naturalmente, ma qui riesce a essere ferocemente attuale, eloquente in un modo anomalo, forse perché conserva un forte senso urbano sinonimo comune di civiltà. Entri a casa tua e c’è l’abominio, magari un po’ di quell’abominio lo hai coltivato con cura e non te ne eri accorto, questa è la cifra tutta peculiare del Terror Háza. La conservazione dei luoghi è quasi perfetta e il carroarmato autentico piazzato appena all’ingresso del mezzanino dopo la biglietteria è una spettacolarizzazione eccessiva e di maniera come l’installazione di qualche artista contemporaneo eccentrico: di fatto l’evento meno incisivo, anche se vorrebbe imporsi come tale. Per schiacciare la gente qui si usava un mortaio silenzioso e condiviso, non serviva il cingolato.
All’indirizzo di Budapest, Andrássy út 60, si può assaggiare una ricetta unica di incubo e logistica, sopraffazione dei fratelli sui fratelli, dei padri sui figli e sulle mogli, dei politici sul popolo, del popolo sul popolo. Non è una cosa nuova, il mondo è pieno di questi luoghi. Il Terror Háza è uno spaccato spietato di come si strutturano le società, a volte in modi estremamente violenti, a volte meno. Con la sua evidenza di contiguità ordinaria riesce a demolire ogni dichiarazione di principio che pretende essere definitiva. Qui mai più evapora di fronte all’evidenza di come gli esseri umani sanno passare da una parte all’altra senza esitare, il fratello diventa il tuo carnefice per un caffè di privilegio e di carriera, così, semplicemente. Se ce ne sorprendiamo è solo per effetto dell’ipocrisia in cui si beano le società che escono da questi periodici massacri con l’intenzione strillata ai quattro venti di essere migliori. In questo luogo senza tempo colpisce quanto la storia dell’ungherese Gábor Péter, un carnefice tra tanti, assomigli a quella del tedesco Franz Stangl. Gábor Péter era un apprendista sarto che per doti di asservimento e ambizione non comuni (insostituibili alleati dell’orrore) è assurto alle glorie del potere comunista; Stangl avrebbe voluto fare il tessitore, magari ricamare a fiorellini qualche tovaglia, a Treblinka apprezzava oltremodo chi sapeva di cucito. Due animi sensibili, due belve, due uomini normali, due funzionari che da mondi molto diversi sono giunti alla stessa conclusione. Non è così incredibile. La svolta è a portata di ognuno e la tentazione anche. Ai piani bassi del Terror Háza gli scantinati dove sono conservati i reperti delle torture, un secchio d’acqua, un cavo elettrico, un trasformatore laborioso ma efficace, pronti per essere usati di nuovo, hanno ancora l’odore di galera, dove esseri umani, sangue e liquami si mescolavano ineffabilmente con gli aromi indistinguibili della muffa che inghiotte prima o poi ogni sofferenza.
Si può essere certi che questo odore diventasse parte del carnefice, che dopo un po’ non disdegnava per proprio tornaconto e soddisfazione puzzare di morte, il segno della propria devozione. Avanzamenti di carriera e miasmi di depravazione. I piani superiori, emersione accettabile del mostro, non potevano esserne esenti, nonostante la distanza. Tutto unificato nella devastazione dell’uomo a cui ognuno, che non sia inibito per natura alla violenza di ogni tipo, può prestarsi quando cambia il vento. Troppo facile dire che non è vero, in un periodo di tranquillità (tutta personale). Osservando attentamente si intravede la propensione inestinguibile dell’umanità al Terror Háza. Scorgere i potenziali nuovi Gabor e Stangl, funzionari rispettabili della mostruosità, non è così difficile. È come l’odore di questo luogo, accompagna chi ne è affetto e accomuna tutti i piani della tragedia umana quando non si è capaci di rifiutare a priori, senza se e senza ma, qualunque atto di violenza contro il prossimo. Uscendo, penso: “Succederà ancora”. Penso anche: “non sarò da quella parte anche se mi aspetterà l’inferno che ho visto e quasi mi sembra di aver toccato”. Penso.