La Grande Storia non la fanno solo i potenti di questo mondo, ma è anche composta da tante piccole vicende feriali e sconosciute che costituiscono i tasselli di quei grandi mosaici che vanno sotto il nome di fatti storici o eventi epocali. Uno di questi è la stagione dell’Unione sovietica staliniana e nello specifico dell’Holodomor, la strage di milioni di kulaki ucraini perpetrata da Stalin attraverso la carestia forzata, la morte per fame, l’accerchiamento spietato di un’intera popolazione. Colpevole, agli occhi del sanguinario di origini georgiane, di avere nel proprio dna la proprietà terriera, e quindi indiscutibilmente nemica del popolo, o comunque della collettivizzazione forzata – che il dittatore (sul modello leninista) considerava la quintessenza dell’esperimento sovietico. Le testimonianze personali di quel fatto non sono molto diffuse e tantomeno conosciute. Per questo la pubblicazione in Francia di Quand Stalin nous affamait (Editions Jourdan, pagine 380, euro 18.90) è quanto mai preziosa.
A raccontare con l’autorità del testimone è Nikolai Koleda, ucraino, classe 1926, attraverso la penna della figlia Catherine che firma il volume. Il quale si presenta come una sorta di memoire (Nikolai è riparato in Francia nel 1945, dove si è poi sposato e ha vissuto fino alla morte nel 2002). La storia della famiglia Koleda – genitori e tre figli – è quella di una famiglia di sopravvissuti all’Holodomor grazie a un’esistenza continuamente in movimento per sfuggire alle maglie della repressione staliniana. Prima destinazione, il Donbass, poi – quando Nikolai ha solo 6 anni – la Bielorussia, dalla quale sono poi espulsi perché tutti gli ucraini dovevano tornare dentro i loro confini: «Per chi rifiutava, c’era direttamente la Siberia», ossia anni di gulag. Ma «fare ritorno in Ucraina significava finire nella bocca del lupo: fame, miseria, persecuzioni».
È qui che il piccolo Nikolai fa il suo primo incontro con la morte per fame voluta da Mosca per sottomettere un’intera popolazione: «Questa parole “fame” e “carestia” le avevo spesso sentite dalla bocca degli adulti. Papà diceva che Stalin affamava gli ucraini per far tacere ogni ribellione perché un uomo che ha fame non ha la forza di ribellarsi». E sono proprio questi piccoli fatti di vita concreta che hanno la forza della testimonianza irriducibile a ogni prospettiva ideologica: «Ho visto una madre tirar fuori un osso ben custodito e darlo al suo piccolo bimbo che doveva avere 3 anni. Il piccolo si è messo a mangiarlo come poteva. La madre lo guardava, felice di avergli dato qualcosa». A casa Koleda iniziano a scarseggiare i viveri e questo si ripercuote nel cibo di tutti i giorni: «La zuppa sembrava molto acquosa. Qualche piccolo pezzo di legume galleggiava sulla superficie. Ho avuto la fortuna di avere nel piatto un piccolissimo pezzo di patata, che mi sono messo subito in bocca».
Nelle peripezie geografiche della sua famiglia capita anche che il lasciare la propria casa e il ritornarvi causi brutte sorprese: al rientro in Ucraina i Koleda non trovano più la propria abitazione: le terre di cui erano proprietari sono finiti proprietà del kolchoz collettivo. Di qui un nuovo periplo di viaggi e insediamenti: prima nel Caucaso, poi in Cecenia, sempre guardandosi le spalle perché le spie e gli agenti della polizia segreta sono in continua ricerca di ucraini da rimpatriare. Ed è proprio mentre sono all’estero che i Koleda, nel racconto di Nikolai, vengono a sapere che «in Ucraina intere famiglie sono sparite». Testimoni attestano che interi nuclei sono stati decimati dalla carestia: «Tutti restiamo muti. Nessuno sa come reagire ascoltando affermazioni come queste».
Rientrati in patria, i Koleda sperimentano l’occupazione nazista che, a un primo avviso – e questa reazione è documentata da varie ricerche storiografiche –, sembra rappresentare per il popolo ucraino una liberazione e una chance di riscatto nazionale. Ma due vicende aprono ben presto gli occhi alla famiglia Koleda: anzitutto, come vengono trattati gli ebrei. Si diffondono voci di retate, rastrellamenti, sparizioni di interi gruppi di ebrei: «Si fa fatica a immaginare che i tedeschi possano uccidere gli ebrei. Ma si sparge la voce che certi ebrei siano stati uccisi sul posto. Il compagno di lavoro di papà sembrerebbe essere scomparso. Non si può uccidere gente del genere. Si sente dire in giro che ci siano campi di lavoro forzato, campi che ricordano i gulag di Stalin. I due amici avevano dunque punti in comune!». E Nikolai vive una scena che gli apre gli occhi: un giorno deve scaricare sotto l’ordine dei militari tedeschi un intero treno di oggetti personali: «Vestiti! Tonnellate di vestiti! Per ogni abito, un ebreo era stato perseguitato. Per ogni pantalone, un ebreo era stato ucciso».
E se si accennava prima all’intreccio delle piccole storie personali con la Grande Storia, un episodio della vita dei Koleda ce lo conferma. Quando il padre di Nikolai porta in tribunale – ovvero all’amministrazione tedesca reggente l’Ucraina del tempo – il caso di persone sequestrate, imprigionate e morte nei gulag staliniani solo per motivi ideologici, ecco che il responso nazista fa balenare l’intrinseca comunanza di impostazione tra i due totalitarismi. Racconta Nikolai: «Il giudice [tedesco] dichiara che le persone che avevano eseguito quegli arresti non facevano che obbedire a degli ordini che venivano dall’alto. Le prove erano insufficienti». Una piccola conferma di quello che anche la storiografia “ufficiale” ha voluto dire quando prima l’Ucraina (nel 2006) poi anche l’Unione europea nel 2008 ha voluto istituire una sorta di Giornata del ricordo del genocidio ucraino, identificando nell’8 maggio la commemorazione di una stagione che ha avuto nell’avversione all’uomo e alla sua dignità il suo più triste e tragico segreto.