Alcuni cartoni preparatori della scuola gaudenziana nel nuovo allestimento dell’Accademia Albertina - .
Novità sostanziali non ce ne sono. Si tratta di quello che in ambito architettonico verrebbe chiamato un intervento di manutenzione straordinaria con alcuni consolidamenti. Ma l’oggetto dell’intervento è ben più effimero di un’architettura di mattoni, perché anzi se si dovesse evocare qualcosa che ha a che fare coi muri si dovrebbe prendere a paragone la sinopia, quel disegno preparatorio che precedeva il lavoro pittorico dei frescanti. Tuttavia nell’ordine di ciò che precede e che prepara rientrano anche questi materiali più effimeri, eppure pesantissimi per la loro importanza documentaria, che sono i 59 disegni preparatori della scuola che, in qualche modo, si mette sotto l’ala di Gaudenzio Ferrari, il grande valsesiano che agli inizi del Cinquecento intervenne a Varallo sul Sacro Monte ideato dal francescano Bernardino Caimi verso il 1481.
Ora, il nuovo allestimento all’Albertina di Torino li illumina con un sofisticato sistema a sensori che preserva i disegni accendendo le luci in sala solo in presenza del visitatore. Si può parlare di cartoni gaudenziani in quanto è una scuola quella che vediamo e dove ricorrono i nomi di Bernardino Lanino, Gerolamo e Giuseppe Giovenone Jr (con qualche lacerto del Morazzone, dei fratelli d’Errico e persino del Cavalier d’Arpino), perché Gaudenzio fu quello che diede un vero imprinting non soltanto alle opere che si realizzeranno lungo un secolo a Varallo, ma in quanto la sua aura aleggia sul territorio da Vercelli a Novara e dintorni, avendo appunto una qualità “territoriale” che è anche il concetto che, nei decenni di riscoperta delle opere dei Sacri Monti, ha spostato l’accento sulla genesi corale di questi luoghi che oltre a testimoniare la forza espressiva degli artisti che vi si sono avvicendati, fa parlare la fede della comunità e il suo retroterra morale, spirituale e devozionale. Si sviluppò infatti in sostanziale continuità dal 1500 al 1630 un nuovo modo di vivere che portò a una sorta di “ricostruzione” del tessuto abitativo valsesiano e ossolano con un cambio di registro propriamente culturale e religioso, come notava molti anni fa lo storico Santino Langé. Egli riteneva anche che fosse giunto il momento di uscire da certi stereotipi come quelli che, per quanto riguarda l’epoca in cui Carlo Borromeo fu arcivescovo di Milano, ne aveva fatto una sorta di burattinaio della società lombarda che manovrava i fedeli secondo il culto devozionale quasi fosse un teatro dei pupi. In realtà, proprio i Sacri Monti aiutano a comprendere come fosse un nuovo sensus fidei a generare queste opere rispetto alle quali gli stessi artisti lavoravano in immersione spirituale.
Il cartone della “Pietà” di Gaudenzio Ferrari (Torino, Accademia Albertina) - .
a decana degli studi sull’arte piemontese, Andreina Griseri, scrive a questo proposito nel volume I cartoni rinascimentali dell’Accademia Albertina, edito da Skira (a cura di Paola Gribaudo, pagine 158, euro 45), che i Sacri Monti indicano chiaramente il cambio di passo rispetto alle dinamiche devozionali del tardo Medioevo, e nota che Gaudenzio interpreta «con respiro profondo i valori del patrimonio originale della valle». La scelta dell’affresco e “il filo inedito” che si manifesta in una «figurazione chiara, rivolto al mondo nuovo nei toni espressivi, vibranti del racconto»: sta forse qui il nucleo divergente rispetto a quello degli “uomini d’oro” del Rinascimento con cui Longhi e Testori ponevano in polemica le periferie lombarde rispetto ai grandi centri dominati dai Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Mantegna, Tiziano, coi quali, però, come ricorda la Griseri, Gaudenzio si ritrova, secondo quanto scrisse Lomazzo nel 1590, nel novero dei governatori dell’arte. Testori - di cui nel libro si ripubblica il contributo scritto per il fondamentale catalogo della mostra Gaudenzio Ferrari e la sua scuola, curata nel 1982 da Giovanni Romano (benemerito tutore di tante iniziative a salvaguardia dell’arte piemontese, scomparso nel dicembre scorso) -, aveva giocato su Gaudenzio una delle sue maggiori scommesse coniando una definizione che ancora oggi risulta insuperata, quella di “Gran teatro montano”. Si riferiva al Sacro Monte di Varallo, del quale proponeva uno schema da 'opera d’arte totale', sostenendo, in aggiunta alle già riconosciute abilità di pittore e scultore, che Gaudenzio ne fu anche l’ideatore architettonico, secondo un’idea sulla quale avrebbero poi lavorato i suoi successori. In una sintesi estrema dell’idea pangaudenziana di Testori, nel 2010 Marzio Pieri, il grande critico del Barocco e di Giambattista Marino, parlò di «Gaudenzio come Sacro Monte», che è come vedere l’artefice dell’opera totale sepolto, anzi inumato per sempre, nella sua creatura. Testori e la Griseri si erano trovati già nel 1956 per la mostra gaudenziana che diede in certo modo il via ai saggi poi raccolti da Testori nel mitico libro edito da Feltrinelli nel 1965 intitolato appunto Il gran teatro montano. Saggi su Gaudenzio Ferrari. E sempre Testori riassumeva nel 1982 l’iter che l’aveva portato a riscoprire una via che da Martino Spanzotti a Ivrea passava per Varallo e Gaudenzio e approdava nel nel 1958 al “misconosciuto” Tanzio.
Con il linguaggio suo più evocativo e quasi feriale, che corrispondeva alla vena domestica e “famigliare” con cui sentiva dentro di sé il “dolce padre” Gaudenzio, Testori scrisse a proposito dei cartoni dell’Albertina: «ebbi la certezza che fossero, che erano, come lenzuola, federe, tovaglie su cui i ricami e le 'cifre' fossero opera della madre, ma l’impronta dell’intera famiglia, avendo a capotavola il padre». Ora, si potrà, in tempi di gender e pari diritti, vedere in questa visione ispirata al modello del pater familias un che di maschilistico, ma in realtà Testori usò sempre per Gaudenzio aggettivi gentili che facevano uscire il modello paternalistico da se stesso spostandolo sulla tenerezza e la poetica degli affetti che il pittore valsesiano assunse dal modello della compassione francescana. Tant’è che Gaudenzio è visto come colui che offre «alla sua infinita discendenza, non solo gli stilemi, ma il cuore del suo stesso cuore».
La stessa Griseri segue questa prospettiva quando vede nel racconto che Gaudenzio ci offre «il nuovo respiro di una risposta semplice» dove, per esempio, Gesù bambino è «il fanciullo che ognuno scopre come suo figlio». Al contempo, fissando al 1486 - secondo le più recenti ricerche - gli inizi del Sacro Monte come visione del viaggio verso la Nuova Gerusalemme, è proprio in quel frangente che si manifesta anche un nuovo stile orale dove la fede parla, grida, sanguina, piange, ama e gioisce nella celebrazione delle sacre rappresentazioni e delle processioni dove si rivivono i momenti della vita di Cristo fino al Calvario, riprendendo certi moduli del teatro popolare che diventa teatro sacro e offre a Gaudenzio un modello per le sue cappelle con una linea espressiva, estremamente realistica, cioè prossima alla vita come continua lotta tra bene e male, che rende la fisiognomica e l’iconografia del Sacro Monte un mezzo attraverso il quale la vita di ogni giorno coincide con la simbolicità dei particolari e dei singoli gesti.
Simone Baiocco ricorda come la Soprintendenza torinese fu negli anni che preparano la mostra del 1982 una 'palestra metodologica' dopo la quale oggi è più agevole vedere quanto la 'scuola vercellese' sia stata un esempio raro di trasmissione di modelli all’interno di una tradizione di bottega che continua lungo più generazioni. «I cartoni non erano un tesoro segreto», ma testimoniavano uno scambio e anche le solidarietà fra maestri coetanei, diventando un caso di didattica comune, prima della nascita delle Accademie d’arte, che ancora oggi, nella versione che ne studia la funzione e l’importanza può sollecitare un analogo esercizio didattico per i più giovani che si avvicinano all’arte, come suggerisce Enrico Zanellati.
I documenti archivistici, il passaggio dei cartoni in varie mani, in particolare nella famiglia Giovenone, fino alla donazione all’Albertina nel 1832 da pare del re Carlo Alberto, mettono alla prova gli studiosi nel riconoscere in ogni disegno le mani di un autore. Ma ciò che è già evidente, come sottolinea Baiocco, è la centralità che ebbe Vercelli mentre da un lato s’avvicina alla corte torinese e dall’altro non smette però di guardare verso Milano (seguendo poi i dettati del Borromeo). Questo ci dice anche quanto la contrapposizione fra centro e periferia sia oggi ben più complessa e intricata di quanto non volessero Longhi e Testori. Come del resto cercava di dimostrare anche la mostra del 2018 dedicata appunto al 'Rinascimento di Gaudenzio Ferrari'.