sabato 20 marzo 2021
La giovane intellettuale italo-cingalese: «Le difficoltà di integrazione sono a tutti i livelli, rendono difficoltosi i percorsi per la cittadinanza e spesso non abbiamo possibilità di parlare»
La scrittrice Nadeesha Uyangoda

La scrittrice Nadeesha Uyangoda - Archivio

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Aveva collaborato con Yalla Italia, a Milano, un progetto pionieristico che mirava a dare protagonismo alle seconde generazioni anche nel campo della comunicazione. E ancora oggi continua a riflettere su temi e sfide come quelli dell’identità e del razzismo, dell’integrazione e della cittadinanza, diventati centrali in una società sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa. Nadeesha Uyangoda, 27 anni, nata in Sri Lanka e cresciuta in Brianza, è laureata in Giurisprudenza, ma continua a frequentare i luoghi della comunicazione, attingendo al suo vissuto personale, ma anche riflettendo e confrontandosi con altri sia in Italia che all’estero. Non senza un pizzico di provocazione. Come è evidente anche nel titolo del suo recente libro, L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd, pagine 173, euro 15). Dove la nera sarebbe lei, ma anche tutti i 'non bianchi' d’Italia.

Non le sembra un po’ riduttivo metterla sulla dicotomia bianchineri? Anche perché molte persone di origine straniera probabilmente non si riconoscerebbero nella definizione di 'nero'…

È una questione di linguaggio. Che però dice anche la limitatezza del pensiero e del dibattito in corso in Italia. In ambito anglosassone, ad esempio, hanno una varietà molto più ampia di parole ed espressioni per definire le persone appartenenti a minoranze etniche, anche perché da più tempo si confrontano con i temi della multietnicità e del multiculturalismo. Dopodiché, certo, la mia è un po’ un’iperbole. Qualcuno sostiene che dovremmo definirci tutti 'neri', anche per sottolineare le discriminazioni che subiamo o che ostacolano i nostri sogni e aspirazioni; altri preferirebbero usare l’espressione 'seconde generazioni', anche se ormai siamo alle terze e talvolta alle quarte. Insomma, occorre lavorare ancora molto sul linguaggio.

Scrive che il suo libro è nato quando ha smesso di «fuggire dalla razza » Anche questa è un’espressione forte. Che cosa intende?

Non certamente la razza in termini biologici, ma quell’insieme di riferimenti culturali, pregiudizi, stereotipi o comportamenti sociali, anche legati al colore della pelle, che hanno effetti sulle nostre vite. In Germania hanno addirittura tolto il termine razza dalla Costituzione. E qualcuno vorrebbe farlo pure in Italia. Ma non è cancellando un termine che si affronta e tanto meno si risolve il problema.

Quello del razzismo?

Sì. Che esiste a vari livelli, più o meno espliciti, nella società come nella politica, nelle istituzioni o nella burocrazia. E rende, ad esempio, particolarmente difficoltosi i percorsi per ottenere la cittadinanza. L’antirazzismo, a mio avviso, dovrebbe includere anche la battaglia per la riforma della legge sulla cittadinanza.

Lei ha la cittadinanza italiana?

No, perché non voglio che mi sia 'concessa'. Io sono italiana, anche se non ho nel sangue generazioni di italiani. Ma la cittadinanza non può essere solo una questione di ius sanguinis. Per questo spero in una nuova legge che ci riconosca come cittadini italiani, con tutti i diritti e i doveri che ciò comporta, perché io, come tanti altri, lo siamo a tutti gli effetti.

Ma che cosa significa sentirsi l’unica nera nella stanza?

Significa non essere ancora presenti a tutti i livelli nella società, nella cultura, nell’informazione, nelle professioni o nei luoghi di potere. Quando ci siamo, principalmente rappresentiamo gli oggetti del discorso, non i soggetti. E anche quando si parla di temi che ci riguardano, di rado abbiamo la possibilità di farlo da protagonisti.

Forse perché mediaticamente siete ancora piuttosto 'invisibili'…

Gran parte della narrazione sugli stranieri in Italia si riduce al racconto degli sbarchi e dei flussi migratori. Raramente si affrontano le dinamiche razziali a partire da chi è cresciuto qui, ha studiato, lavora e partecipa alla vita sociale e culturale.

Non le sembra che negli ultimi tempi le cose stiano un po’ cambiando?

Direi di sì. Specialmente dopo l’omicidio di George Floyd si è aperto un grande dibattito e si sono viste molte proteste antirazziste. Ma in Italia è ancora molto difficile parlare apertamente di razzismo. È una parola che molti faticano a pronunciare. Per questo, ogni iniziativa e ogni gesto sono importanti per provare ad andare oltre pregiudizi e stereotipi che, a volte, sono reciproci. E per scardinare anche il razzismo inconsapevole.

Internet e i social media sono spesso amplificatori di odio (anche razziale). Ma possono essere anche strumenti efficaci per offrire a tutti la possibilità di esprimersi?

Certamente. E di fatto è quello che sta avvenendo. In quest’ultimo anno, in particolare, ho visto molti italiani di colore che hanno creato reti, iniziative o semplicemente hanno avuto la possibilità di esprimersi più liberamente, promuovendo maggiore consapevolezza su questi temi. Quanto questo attivismo sia performativo lo vedremo sul lungo periodo. Mi pare però che si stiano avviando percorsi interessanti…

Che coinvolgono soprattutto i giovani?

Sì, anche perché tanti ragazzi crescono in una società davvero più multietnica e multiculturale e il confronto con persone di altre origini diventa una cosa naturale. Dopodiché, però, occorre fare pressione perché le cose cambino anche nei luoghi di potere.

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