Erasmo da Rotterdam ritratto da Hans Holbein il Giovane nel 1523 - WikiCommons
Negli ultimi anni l’Europa ha dovuto assistere al ritorno di fenomeni antichi e ricorrenti e, su altri fronti, a situazioni inedite. Mentre sono risorti, con pelle mutata e ugualmente pericolosa, nazionalismi, tentativi isolazionisti e riflussi di razzismo, il vecchio continente ha visto entrare e uscire dalle sue frontiere politiche attori importanti. Basta pensare al ritorno della Gran Bretagna al suo status autonomo rispetto all’Unione Europea per rendersi conto dell’inversione di tendenza in atto: dopo decenni di aggregazione sotto i valori della democrazia, delle libertà e della pace, più di una voce si è levata per mettere in discussione in modello europeo, richiamando la maggiore efficienza di sistemi esterni o alternativi alla casa comune dell’Unione. Tra coloro che hanno assistito con maggiore preoccupazione a tutto questo, vi sono state le generazioni Erasmus: giovani (attuali) e giovani (ormai adulti) che grazie ai programmi di mobilità interni al continente hanno appreso, con l’esperienza, lo scambio interpersonale e la formazione, il valore di un orizzonte condiviso. Nel momento in cui questo spazio, fatto di frontiere abbattute e di possibilità culturali, è stato messo in pericolo, è come se l’intera Europa avesse riscoperto un tratto fondamentale della propria fisionomia, dalle radici antiche. Lo rivela il nome del programma (Erasmus, appunto), che richiama una storia di cinquecento anni fa, cui è dedicato un recente volume di Lucia Felici. Il libro, significativamente intitolato Senza frontiere. L’Europa di Erasmo, 1538-1600 (Carocci, pagine 352, euro 36,00), ripercorre la vicenda della fondazione filantropica cui l’umanista olandese lasciò il suo ingente patrimonio. Dopo avere guadagnato le sue ricchezze mediante il lavoro intellettuale, Erasmo volle infatti offrire ai giovani talenti la possibilità di farsi strada attraverso lo studio. L’Erasmusstiftung – questo il nome del lascito erasmiano – era destinato, per espresso volere del suo istitutore, a finanziare gli studi di quanti fossero stati ritenuti meritevoli, al di là della loro religione, della confessione cristiana a cui appartenevano, del contesto sociopolitico da cui provenivano. Una visione lungimirante, anticipatrice e in controtendenza rispetto al mondo del Cinquecento in cui l’affermazione dei sistemi statuali e il ruolo sempre più discriminante della religione sembravano condurre altrove. A gestire l’eredità di Erasmo fu il suo discepolo Bonifacius Amerbach, che non tradì le aspettative del maestro. Il libro di Felici riesce a far parlare brillantemente la documentazione, in gran parte amministrativa, dell’Erasmusstiftung. Ne emergono le vicende dei maestri, degli studenti e dei borsisti finanziati, con storie che mostrano i frutti dell’intuizione di Erasmo. L’Erasmusstiftung continuò a vivere fino all’Ottocento inoltrato: l’interrogativo che guida l’autrice esula tuttavia dalla semplice storia istituzionale. Quanto contò davvero, quanto riuscì a incidere sullo scenario culturale europeo la fondazione erasmiana? Felici ripropone ed esamina i dati alla luce di questo quesito, scoprendo che il lascito di Erasmo finanziò in molti casi vere e proprie “generazioni di borsisti”: per accedere ai sostegni economici spesso la via più semplice fu la presenza di un genitore o di un parente tra i precedenti beneficiari. Sebbene questo aspetto possa apparire in contrasto con gli scopi descritti, ne emerge invece un sistema capace di promuovere il merito e assicurare al sistema universitario europeo grandi intellettuali e probi insegnanti. Nondimeno, moltissimi furono anche coloro che attinsero alle borse erasmiane senza alcun precedente familiare, a dimostrazione di un congegno funzionante ed efficace. L’effetto dell’eredità di Erasmo, più che nei numeri, va però misurato nel suo portato ideale: sfidando il contesto che aveva davanti, come spesso gli era capitato in vita, Erasmo ritenne che, per un mondo migliore e un’umanità più umana (prendo l’espressione da Felici), fosse necessario porre al centro la persona e le sue capacità, con uno spirito autenticamente cristiano. Il bene comune non veniva dall’esclusione o dalle etichette della politica o della religione, ma dalla scoperta di ciò che univa la famiglia umana, nel segno della cultura e del rispetto dell’altro. Ciò che oggi, forse, rischia di apparire più appannato di cinquecento anni fa.