Il “ritratto” del fantomatico poeta Orsini - -
Cent’anni fa, nel febbraio del 1923, l’editore Treves pubblicava I canti del Palatino. Nuove solitudini, una raccolta postuma di liriche del giovane marchese Giulio Orsini, insospettata maschera del sessantatreenne conte Domenico Gnoli che col suo vero nome non era riuscito neppur lontanamente a riscuotere la clamorosa notorietà che i critici avrebbero tributato alla sua creatura. Gnoli era sì il vero nome, ma Orsini il vero poeta. Una stessa persona dunque allo stato civile, ma due diversi autori all’anagrafe della poesia. Un caso davvero strano, anzi unico, nel mondo delle lettere. Il nome di Giulio Orsini balzò agli onori delle cronache letterarie nel 1901 per un poema in versi liberi, Orpheus, che l’autore aveva inviato in omaggio a letterati e giornalisti di mezza Italia, raccogliendo entusiastici consensi. Giuseppe Chiarini ne parlò per primo sul “Giornale d’Italia” e gridò alla rivelazione di un poeta dalla sincera ed esuberante giovanilità; Arturo Graf trovò che alcuni versi dell’Orsini non sarebbero spiaciuti a Shakespeare o a Baudelaire; Giuseppe Picciola lo accostò invece al più delizioso Shelley. Che fosse giovane lo s’intuiva dai suoi stessi versi, nei quali contro i «vecchi metri» si scagliava la sua «musa giovinetta » («A noi, giovani, apriamo i vetri, / Rinnoviamo l’aria chiusa!»). Chi fosse però nessuno lo sapeva. Un mistero alimentato dalla natura sdegnosa e solitaria dello stesso Orsini, il quale nelle sue prefazioni ammetteva la sua «mattezza » di nascondersi a tutti, infischiandosene d’una critica insipiente ora compiacente ora rancorosa. In privato invece il superbo poeta non faceva altro che chiedere a chicchessia giudizi e recensioni per i suoi libri. Le sue lettere provenivano da luoghi sempre diversi, da Berlino, da Vienna, da Firenze, da Venezia, avallando così le voci di un giovane infelice, ricco e bizzarro, sempre in viaggio per l’Europa per tacitare i suoi «dissensi intimi». Al contrario le sue carte da visita, nelle quali campeggiava una corona marchionale, avevano tutte come domicilio Roma con indirizzi di volta in volta diversi. Quando si trattava però di chiedergli un appuntamento, la risposta era sempre la stessa. Il richiedente si vedeva recapitare una lettera nella quale il marchese si dichiarava «dolentissimo» di non poterlo accontentare, perché in procinto di partire. Del resto nessuno lo aveva mai visto, tranne in una foto – ma era proprio la sua? – che lo ritrae in una posa scapigliata, in antiporta all’altra sua raccolta di poesie Fra terra ed astri del 1903, un volume che lo consacrerà unanimemente come una delle voci più originali e più nuove della poesia italiana degli ultimi anni. Succede però che diversi ammiratori e corrispondenti, recatisi all’indirizzo indicato nella carta da visita, si sentono rispondere dal portiere che nello stabile non abita nessun Giulio Orsini e che la posta viene ritirata da un servitore. Il mistero del poeta che «non vuole essere veduto», forse per un morbo incurabile al viso, comincia a traballare, per fare strada all’ipotesi di un prestanome dello Stecchetti o di Cesare Pascarella o di qualche altro noto poeta in cerca di réclame. Tra una indiscrezione e l’altra, nella primavera del 1904, filtra un nome sul quale si appuntano molti indizi. Il caso giunge così a una svolta. L’autore di Orpheus, vistosi ormai scoperto, si consegna ai cronisti del “Giornale d’Italia” che, dopo una settimana di indagini e interviste a intellettuali e poeti, il 29 maggio ne svelano l’identità. Il venticinquenne sensuale e rivoluzionario poeta che voleva spalancare i vetri altri non è se non il canuto prefetto della Biblioteca Vittorio Emanuele ovvero il conte Domenico Gnoli, che con la complicità di Ettore Romagnoli, Romolo Prati e soprattutto di Pietro Molossi giovane funzionario ministeriale (era lui a ritirare la posta, a scrivere e firmare le lettere), aveva tenuto viva per ben tre anni la favola dell’Orsini. Appena tumulata la salma del suo prestanome, il conte Gnoli non mancherà di chiedere pubblicamente scusa agli amici e colleghi letterati, per averli «amabilmente» corbellati, ed erano davvero tanti. Giustificherà così il ricorso alla maschera dello pseudonimo: «Alla mia età scrivere versi d’amore può far sorridere tutti quelli che d’arte oggettiva non s’intendono». Parole dettate in verità dal pudore di lui, perché, sebbene avanti con gli anni, e nonno, quell’amore che ispiravano i suoi versi non era finzione ma lo stava vivendo davvero con una «dolce amica dalle grandi ciglia nere». Nessuno però capì; e Giulio Orsini rientrò in Domenico Gnoli. Soltanto sei anni dopo la morte dello Gnoli, Silvio D’Amico rovistando tra le carte inedite dell’autore di Orpheus, svelerà su “L’Idea Nazionale” del 13 aprile 1921 l’idillio puro e casto, nascosto tra i veli della poesia e in accenni epistolari con la poetessa Vittoria Aganoor, di molti anni più giovane di lui. Anche Luigi Pirandello entrerà, sia pure marginalmente, nel caso Orsini. Fu infatti uno dei destinatari designati della trappola del professor Gnoli, non foss’altro perché lo scrittore agrigentino ne aveva recensito favorevolmente nel 1898 Vecchie e nuove Odi Tiberine. Ma, ricevuto in omaggio il volumetto Fra terra ed astri con la consueta lettera che sappiamo del Molossi, non abboccò all’amo. Rispose soltanto con due parole di convenevoli: «Ringraziamenti; congratulazioni». Ne abbiamo conferma attraverso un inedito biglietto da visita conservato alla Biblioteca Angelica di Roma e indirizzato «A Giulio Orsini/ 13, via Gregoriana/ Città». Soltanto nel 1906, e in occasione d’una recensione a Le Rime della Selva di Arturo Graf, lo scrittore siciliano rispolvererà il caso Orsini ma solo per dimostrare il fallimento della critica letteraria e l’instabilità e la precarietà della fama. «Il nome di uno scrittore è quasi una piuma che il soffio d’un momento può mandare ai sette cieli o mandar giù nel fango, in un cantone», così scriverà. Quando però alla sua vita si affaccerà la giovanissima Marta Abba, la sua musa ispiratrice, per la quale nutrirà una morbosa passione mai corrisposta che lo porterà sull’orlo del suicidio, dopo che l’attrice prima a Ferrara e poi a Lucca gli aveva detto di non volerlo più vicino, solo allora gli tornerà alla memoria quanto il caso Gnoli-Orsini per certi versi somigliasse al suo. E, così com’era accaduto per Vestire gli ignudi e per Suo marito, ispirati a un fatto reale, a un documento umano, un germe d’idea gli entrerà nella testa, per poi sbocciare in una buffa tragica commedia intitolata Quando si è qualcuno. Domenico Gnoli nel suo diario intimo intitolato Giulio Orsini e Vittoria Aganoor scriveva, copiando goffamente Alfred De Musset: «Se questi due nomi saranno ricordati nella storia letteraria del nostro tempo, essi certamente saranno uniti»; e si augurava che la sua segreta storia sentimentale con l’aristocratica poetessa di origine armena trovasse un giorno qualche studente che ne togliesse il velo magari per farne una tesi di laurea. Mai avrebbe immaginato che sarebbe toccato nientemeno a Pirandello, uno che quella commedia avrebbe voluto viverla, e non scrivere.