Dio non gioca a dadi, d’accordo. Però ogni tanto la Chiesa, ludicamente parlando, si prende il lusso dello spariglio. «La mano di carte che scompiglia il tavolo, ha presente?», spiega il sociologo Franco Cassano, che da Bari, a metà degli anni Novanta, lanciò la sfida del «pensiero meridiano». In uno dei suoi ultimi saggi (
L’umiltà del male, Laterza, 2011) si è soffermato a lungo sull’apologo dostoevskiano del “Grande Inquisitore”, immagine minacciosa dell’istituzione che soffoca il Vangelo. «E poi – soggiunge – è arrivato papa Francesco, che del Grande Inquisitore è l’esatto contrario. All’esibizione di autorità preferisce l’ammissione della debolezza, all’uso strumentale del mistero oppone l’esercizio dell’umiltà. Volendogli trovare un’altra parentela ottocentesca, la scelta cade sulla testimonianza di Leopardi nella “Ginestra”: davanti all’immensità del mondo agli uomini non resta che scoprirsi affratellati nella finitudine".
È questo lo spariglio?«Anche questo, sì. Ma non solo. Al momento dell’elezione di Bergoglio e subito dopo, quando ha iniziato a delinearsi il profilo del suo pontificato, mi sono ritrovato a pensare: “Guarda un po’ che riesce ancora a combinare la Chiesa…”. In una fase in cui tutto l’Occidente, e in particolare l’Europa, sembrano intrappolati in uno stato di depressione, timorosi come sono di perdere i privilegi di cui hanno goduto negli ultimi secoli, ecco un Papa chiamato “quasi alla fine del mondo”, grazie al quale la prospettiva si rovescia bruscamente. Dal punto di vista storico è la fine dell’eurocentrismo, ma in senso più largo è un invito, molto insistente, rivolto alla cultura laica, che non può più accontentarsi di lamentare la fine di un’epoca. Se l’Europa è a corto di speranza, e l’Italia è ancora più in affanno degli altri Paesi, in gran parte del mondo l’orizzonte del futuro è tutt’altro che consumato. Il Papa viene da queste terre, da un continente vivacissimo come l’America latina. E ci dice, in tutta semplicità, che la storia non è finita. Che la speranza, dunque, è ancora possibile».
Questo che cosa comporta?«Anzitutto l’assunzione di una tradizione che finora l’Occidente ha trascurato, se non addirittura ignorato. Sono le tematiche del Grande Sud del pianeta, risorsa straordinaria anche sul versante simbolico. L’importante, dal mio punto di vista, è che questo accade con un cambio di passo nella Chiesa. Sintetizzando al massimo, direi che tutto si decide nel rapporto con la modernità. Posso usare un’altra espressione relativa al gioco?»
Certo.«Con Francesco la Chiesa non sta più in difesa, ma passa all’attacco. Lo fa in maniera diretta, senza alcun complesso di inferiorità verso un pensiero che, di conseguenza, è invitato a riconsiderare se stesso, in tutta la sua ampiezza e in ogni sua contraddizione. Quando il Papa, per esempio, svolge una critica all’utilitarismo, un intellettuale non può non revocare in dubbio la visione per cui il liberismo sarebbe l’unico paradigma fondante dell’agire economico. Ci sono molti aspetti del pensiero moderno che richiedono una specifica assunzione di responsabilità. Ne cito soltanto due, che ritengo cruciali: la deriva dell’individualismo da un lato e il rifiuto del limite dall’altro. Su entrambe le questioni l’insegnamento di Francesco è chiaro, puntuale e non equivocabile».
I laici, quindi, devono mettersi in ascolto?«Preferisco dire che occorre praticare un ascolto reciproco. Non mi nascondo che, presto o tardi, le divergenze emergeranno, ma ora si stanno creando le condizioni perché l’apertura alla diversità sia anche un’apertura nella diversità. Per quanto mi riguarda, non auspico affatto che la cultura laica sia assimilata dalla sfera religiosa, fino a scomparire in essa. Anche da parte dei non credenti, infatti, può venire alla Chiesa un contributo decisivo».
In quale ambito?«L’insegnamento di Francesco va nella direzione della <+corsivo>caritas <+tondo>e quindi del perdono. Dimensione irrinunciabile per il cristiano, ma che non può essere tradotta meccanicamente in virtù civile. La cultura laica ha il compito di vigilare su un’altra sfera, che è quella della legge, sottoposta per sua natura a un severo principio di astrazione. Facciamo il caso delle tasse. Sono una forma di bontà obbligatoria, rispetto alla quale la volontarietà non riveste alcun ruolo. Siamo nel dominio della legge e non nel contesto della
caritas».
Ne fa una questione di metodo?«Papa Francesco si richiama spesso alle periferie del mondo e questo, in fondo, non è strano: anche Gesù è nato alla periferia dell’Impero romano. La Chiesa ha poi conquistato una posizione centrale, ma la vicenda del Grande Inquisitore ci insegna che, se ci si sofferma esclusivamente su questa centralità, va perduto qualcosa di essenziale. Anzi, va perduto l’essenziale della Chiesa, che è la fede in Cristo. Fin qui siamo in un contesto teologico. Ma se ci domandiamo in che modo, oggi, i poveri che abitano le periferie dell’esistenza possano essere tutelati, dobbiamo convenire che tocca alla legge impedire la prevaricazione di chi è più forte su chi è più debole. Inutile illudersi che la cancellazione delle regole conduca al trionfo della
caritas. È vero il contrario, semmai: senza legge non c’è giustizia. E questo vale per tutti, credenti e non credenti».