Dita Kraus - -
Una storia che dal 1929 arriva alla fine del secolo scorso quella narrata da Dita Kraus, consorte dello scrittore ceco Otto Kraus. Il titolo scelto per l’edizione italiana, La libraia di Auschwitz (traduzione di Laura Miccoli, Newton Compton, pagine 416, euro 11,90) non rende appieno il senso del libro. Si sarebbe potuto benissimo mantenere la versione originale, A Delayed Life (“Una vita rimandata”) così restituendo il filo rosso di questo racconto autobiografico tanto lacerato e lacerante, che racconta di rinascita e ripartenza oltre che di sterminio e distruzione. Dita Kraus conosce un’infanzia agiata e normale a Praga sino a quando l’azione criminale nazista incomincia a stravolgere la vita del mondo e a spezzare la sua e quella del destino della sua famiglia. Dita ha 13 anni quando nel 1942 vengono deportati a Terezin, poi l’anno dopo ad Auschwitz e successivamente a Bergen- Belsen. Molti gli orrori e le torture che la ragazzina in successione vede e vive in ognuno dei campi di sterminio dove si trova prigioniera, orrori e violenze psicologiche descritti senza orpelli, con un’asciuttezza, proprio perché tale, impressionante. Un onesto riportare, figlio di una lucidità della memoria altrettanto che del senso di responsabilità del proprio ruolo di narratrice. «È indicibile ma tenterò di parlarne perché devo », Dita Kraus fa forza a sé stessa per proseguire in una narrazione che non preclude nessun dettaglio al lettore.
Il nucleo pulsante di questa vicenda dolorosissima già in parte narrata in terza persona da Antonio Iturbe ( La bibliotecaria di Auschwitz, Rizzoli), traspare dallo stile piano eppure mosso usato dall’autrice che ne è stata protagonista; straziante la scena della morte della madre, avvenuta in Germania al ritorno dai campi dopo che il padre era morto ad Auschwitz. Quando a guerra finita torna a Praga e si getta a capofitto nella vita, Dita è nemmeno diciassettenne e orfana. A rendere straordinaria la sua testimonianza c’è stata sì la sua attività di bibliotecaria evocata nel titolo italiano – nel campo di Auschwitz aveva avuto come mansione quella di conservare e gestire alcuni pochi libri e così veicolare le letture contrabbandate tra i deportati internati. Ma il suo racconto in nessun modo cala di interesse nella seconda parte, là dove a essere rievocati sono gli anni successivi alla guerra, l’inizio della “vita rimandata” della giovane Dita. Che a Praga incontra lo scrittore Otto B. Kraus, colui che diverrà suo marito: le loro esperienze di sopravvissuti alla Shoah sono quasi analoghe, un legame ampio e profondo si stabilisce tra i due fino alla morte di lui, avvenuta nel 2000 – e di quel matrimonio lei è capace di scrivere con pudore e completezza.
Negli anni del comunismo insieme lasceranno Praga per trasferirsi in Israele (molto interessanti sono le descrizioni dei kibbutz dove entrambi i coniugi Kraus svolsero lavoro di insegnanti). Le tragedie non sono finite, Dita conoscerà lo strazio di perdere due dei suoi tre figli. Uno scudo di semi-insensibilità raggelata costruitosi in lei negli anni della persecuzione arriva a fratturarsi, il dolore vibra nuove scosse. Dita Kraus rammenta e riporta ogni tornante della propria drammatica vita senza mai cedere alla scorciatoia dell’enfasi, obbediente a una schiettezza piuttosto, fiera e pronta a commuoversi con la sua vitalità resiliente e umanissima. Come quando a Gerusalemme in una mostra di disegni di bambini di Terezin ne ritrova uno su cui riportato c’è il suo nome, unica autrice ancora vivente. Ogni frattura della “vita rimandata” resta intatta, ma tra i lembi non ricomposti, sola sutura possibile, ci sono la memoria e la scrittura, le gioie della vita quando ha potuto continuare oltre l’orrore, oltre ognuna delle tantissime perdite.