Produzione di patate in Germania - Ansa
«Anche le patate sono immigrate»: durante la campagna elettorale per il referendum sulla Brexit questo slogan apparve sui manifesti di molti Fish&Chips della Gran Bretagna. Era una risposta provocatoria ai sostenitori del "Leave", che cercava di contrastare un voto condizionato dalla forte paura nei confronti degli immigrati. «Quel messaggio conteneva una grande verità», spiega Rebecca Earle, docente di storia all’università di Warwick. «Ovvero che le patate, coltivate già diecimila anni fa in America Latina nella regione delle Ande, furono portate nel Vecchio Continente dai colonizzatori spagnoli solo nella seconda metà del XVI secolo. E come tutti gli immigrati, anch’esse rimasero vittime della retorica anti-immigrazione».
Inizialmente le classi agiate rifiutarono la patata preferendole un altro prodotto del Nuovo Mondo, il tabacco, senza sapere ancora quanto fosse nocivo. Il tubero non era citato nella Bibbia e, secondo molti religiosi, ciò dimostrava che Dio non voleva che gli uomini se ne cibassero. La "globalizzazione della patata" - dal Perù alla Spagna, dalla Gran Bretagna al resto dell’Europa e del mondo - fu tutt’altro che un percorso semplice e lineare. Redcliffe Salaman, famoso botanico britannico del XIX secolo, la definì «lo strumento perfetto per mantenere la povertà e la degradazione».
Gli irlandesi furono gli unici ad accogliere la patata come una benedizione, come un dono di Dio che sfamava e univa le famiglie, almeno fino a quando la terribile carestia del 1845 - causata da un micidiale fungo delle patate - non li decimò e li costrinse a un esodo di massa negli Stati Uniti e in Australia.
Ma di lì a poco la diffusione dell’umile tubero era destinata ad avere addirittura un impatto decisivo sullo sviluppo della civiltà umana nell’era moderna, favorendo la nascita dello stato liberale. È quanto sostiene la stessa Earle nel suo libro Potato (edito in lingua inglese da Bloomsbury), in cui quel curioso "immigrato" diventa una metafora della modernità con tutte le sue contraddizioni.
«Quando la patata mise finalmente radici in Europa – spiega la studiosa – cominciò a non essere più tanto disprezzata e divenne anzi uno strumento fondamentale per l’affermazione del capitalismo. Le classi dirigenti individuarono in essa nuove opportunità, iniziando a considerarlo il cibo migliore per quegli operai di cui l’economia industriale aveva disperato bisogno».
E pensare che in precedenza era stata ritenuta addirittura un ostacolo allo sviluppo: i colonizzatori del XVII secolo come Oliver Cromwell sostenevano che incoraggiava l’indolenza della popolazione e che i ceti più poveri accettavano di vivere in condizioni miserabili proprio perché sapevano di poter contare sulla patata per sfamarsi. Ancora ai tempi della Grande carestia irlandese il ministro del Tesoro britannico Charles Trevelyan ribadì che il male dell’Irlanda era il «sistema della patata».
Ma già alla fine del XVIII secolo Adam Smith, fondatore del capitalismo statunitense, nel suo famoso saggio La ricchezza delle nazioni, sosteneva che una popolazione ben nutrita costituiva la base essenziale di uno stato forte e che le patate erano il cibo più adatto per le masse, perché assai nutrienti e più convenienti da coltivare del frumento. Smith mise in relazione la prosperità dell’economia con i benefici che gli individui avrebbero ricavato da un maggior consumo di patate. Un terreno agricolo coltivato a patate avrebbe sostenuto una popolazione più grande, e gli operai «nutriti con patate» sarebbero stati assai più produttivi.
Le nuove idee degli economisti enfatizzarono una stretta relazione tra la salute e il successo economico degli individui, e la ricchezza e la forza economica dello Stato. Le masse non furono ovviamente obbligate a mangiare patate ma soltanto convinte della bontà e della salubrità del tubero. «Fu allora che i principali Stati europei cominciarono a ripensare le basi dello sviluppo – spiega Earle – convincendosi che non bastava avere una popolazione obbediente e poco incline alla rivolta. Era invece necessario avere una forza lavoro sana ed energica a servizio dell’industria. E a questo scopo servivano cospicui approvvigionamenti di cibo genuino e nutriente».
Nuove ricette si diffusero in tutta Europa per promuovere e dare dignità a quello che era ormai considerato il nutrimento perfetto. Secondo Earle la patata ha contribuito alla crescita della popolazione mondiale del 25% in meno di due secoli ed è il simbolo sia della transizione verso il lavoro salariato che della resistenza alle nuove forme di sfruttamento create da quel passaggio storico epocale. «I servi della gleba in Russia furono costretti a coltivarla dagli zar e dai padroni e nonostante la riluttanza dei contadini la patata continua ancora oggi a far parte del regime alimentare russo».
Il viaggio compiuto dalla storica dell’università di Warwick non è popolato soltanto da politici e da economisti, ma anche da opere e personaggi letterari che esplorano a modo loro i rapporti tra le patate e la gente comune. Sono citati ad esempio il Pierre Bezukhov raccontato da Tolstoj in Guerra e pace, il quale riscopre il senso della vita in gesti semplici come cucinare le patate, e Leopold Bloom, che nell’Ulisse di Joyce tiene una patata in tasca come portafortuna. Senza scordare il grande poeta irlandese Seamus Heaney, che cristallizzò in uno dei suoi sonetti più celebri - Quando tutti gli altri erano via per la Messa - i ricordi d’infanzia, quando pelava patate con sua madre.
Ai giorni nostri, con circa quattromilacinquecento varietà di patate assimilate in numerose culture e cucine locali, la Cina è di gran lunga il maggior produttore mondiale. Secondo Earle ciò rappresenta un’ulteriore conferma del nesso esistente tra la diffusione delle patate e la politica economica di uno Stato, come quello cinese, che si sta orientando sempre più verso l’economia di mercato. «Anche in Cina, proprio come accadde all’Europa del XVIII secolo, le patate sono state considerate a lungo un cibo per poveri. Ma negli ultimi decenni lo stato cinese ha lavorato per aumentare la coltivazione e il consumo di patate, con uno stimolo ulteriore a partire dal 2014. Una propaganda motivata dalle preoccupazioni sulle aumentate necessità alimentari del Paese, formulata in modo da sottolineare come gli individui possano ottenere benefici mangiando più patate. I programmi della televisione di Stato diffondono sempre più spesso ricette e incoraggiano il dibattito pubblico sui modi più saporiti di cucinare piatti a base di patata».