Josef Brodskij, “Ritratto di Stalin” (1933) - -
Non diamo all’autore del libro di cui parlerò il beneficio della modestia. Armando Torno è raffinato, grande bibliofilo ed esperto di faccende umane, ma non dobbiamo pensare che quando dice «mi basta aver tentato di dire alcune cose senza mentire» intenda invocare la nostra comprensione. L’autore, già apprezzato giornalista e inviato di grandi testate italiane, è anche un “viaggiatore” che ha stabilito in ogni luogo che conti, nei quali si reca o si è recato negli anni, appoggi, amicizie, conoscenze, frequentazioni di uomini e donne che hanno sempre qualche storia da raccontare e conoscono vie privilegiate attraverso le quali accedere a materiali, storie, testimonianze da cui si può cogliere un clima, se non proprio lo spirito, dei tempi. Fra questi un professore moscovita, Viktor Gajduk, che Torno ringrazia come amico e maestro nell’introduzione al libro che esce ora da Marietti 1820, intitolato Le rose di Stalin (pagine 168, euro 14,50). La prima cosa che viene in mente dopo leggendo le pagine di Torno è questa: per essere un dittatore, lo spietato governatore di un popolo volitivo, non basta possedere una innata e forte volontà di potenza. Queste cose forse possono accontentare chi crede che Hitler sia l’imbianchino austriaco oppure che Stalin corrisponda alla definizione sentimentale di “piccolo padre”: nessun sentimentalismo, nemmeno verso le donne, ma soltanto il calcolo dell’utile. No, la volontà di potenza non basta, bisogna disporre di una discreta dose di crudeltà, di anafettività, un intuito che sappia arrivare d’un balzo sia alle vette più alte dello spirito umano quanto alle più basse battute dai più miserabili impostori. E questo libro ce lo fa capire con alcuni “ritratti” che altro non sono se non specchi della dacia nella quale il fantasma di Stalin si è trincerato e ha continuato a governare i tempi sovietici anche dopo la sua morte.
Qualcosa di diverso, per esempio, da Lenin, che avrebbe voluto forse processare i Romanov davanti al popolo, disse la nipote, come un vero rivoluzionario andato a scuola dai giacobini. Torno descrive un ristorante di San Pietroburgo, il Russian Kitsch, ovvero il “Grand-Café of Perestrojka Period” dove, oltre la scenografia al di sopra della seriosa divisa dei burocrati staliniani, i camerieri offrivano ai clienti un menù associato ai volumi dell’opera completa di Lenin (volendo acquistabili per cinque dollari). Stalin era tutt’altro tipo. Conosceva greco e latino, tedesco, armeno, azero, osseto e parsi; era un lettore velocissimo, anche quattro o cinquecento pagine al giorno, «divorava tutto, anche i manoscritti che gli inviavano: romanzi, libri per ragazzi, soggetti di film». Insomma, era uno che prendeva molto seriamente le sue intenzioni. Non meno interessanti le pagine che ci raccontano della enorme biblioteca del “piccolo padre” venticinquemila volumi, divisi in stanze, come cassetti-schedario di una polizia politica. Ecco la prova-rivelazione: «Molti avevano sue note, sottolineature, dediche, segni di appartenenza». Che fine ha fatto questa biblioteca? Accompagnato da un notevole archivista della capitale russa, Boris Ilizarov, Torno si avventura a scoprire che cosa è restato della “Stalinka”, in realtà solo cinquemila volumi. La biblioteca, che era stata vista da pochissimi mentre Stalin era in vita (fra questi Mao), subì una emorragia quando un certo Boris Gorelov, personaggio poco raccomandabile e losco, riuscì a introdursi nei locali a Mosca dove era stata trasferita, e cominciò a sottrarre centinaia di volumi rivendendoli (arrestato nel 1996 e pentitosi, aiutò poi la polizia a ritrovarne addirittura in surplus).
In realtà Gorelov, notò qualcuno, fu la causa involontaria che consentì di salvare parte di quella biblioteca dalle intenzioni di alcuni personaggi del nuovo corso post-comunista vicino a Eltsin che avevano cominciato a disfarsi dell’immenso deposito di libri. Stalin pare avesse una passione per Simenon, al quale regalò una pipa che poi, nel 1978, lo scrittore restituì ai sovietici: il suo metodo per scoprire le spie, disse Gajduk, era simile a quello di Simenon. Molto altro si può trovare in queste pagine che sono frutto di reportage culturali che Torno ha condotto nei primi anni del nuovo millennio trovandosi spesso a Mosca o a San Pietroburgo come inviato del “Corriere della Sera”. Per essere un buon dittatore – insegna il libro – bisogna conoscere bene la natura umana e far tesoro della storia dei popoli, della psicologia delle masse, e in tutto ciò la cultura ha la sua funzione. Ma, come confessò Ol’ga Lepešinskaja, prima ballerina a Mosca, quattro volte Premio Stalin e rispettata dal dittatore che le portava rose in camerino, il “piccolo padre” «fu un uomo vendicativo e cattivo, come tutti gli orientali». Nel giudizio si riflette certo la vicenda personale di Ol’ga, ma questa conferma anche che la volontà di potenza è soltanto una delle componenti necessarie a un buon (efficace) dittatore...