venerdì 9 ottobre 2020
Al Teatro dell’Architettura una mostra dei disegni giovanili del grande architetto quando studiava in Svizzera e meditò l’itinerario che nel 1911 lo condusse verso Oriente, fino a Istanbul e Atene
Le Corbusier, particolare del disegno “Scultura su legno del museo di Cluny” (1909)

Le Corbusier, particolare del disegno “Scultura su legno del museo di Cluny” (1909) - Éric Gachet

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Non ho mai pensato a Le Corbusier come a un uomo passionale. Anzi, me lo figuro come un cartesiano in abiti che rispecchiano la sua natura di teorico sicuro di sé. Ma questo vale per il Le Corbusier universalmente noto. Esiste anche un abbozzo del futuro difensore del mondo razionale, un ragazzo frequentatore di boschi, fiumi e montagne, che studiava senza ancora sapere che sarebbe diventato uno dei due o tre architetti moderni più famosi al mondo. Il padre lavorava come cesellatore e smaltatore di orologi – nella cittadina dove la precisione svizzera aveva quell’oggetto per emblema, La Chaux-de-Fonds, dove è possibile far visita al Museo internazionale dell’orologio –, la madre, invece, era musicista. Insomma: tecnica, matematica e sublime bellezza unite in una sorta di progetto genetico da cui scaturisce uno degli artisti al tempo stesso più rigoroso nel progettare l’architettura, almeno fino agli anni Trenta – casa come machine à habiter –, ma anche il più esemplare nella pratica dell’eresia verso i propri stessi dettati, quelli del periodo razionalista, se paragonati a ciò che viene dopo Ronchamp.

Mario Botta, presentando i disegni giovanili di Corbu ora esposti al Teatro dell’architettura di Mendrisio (fino al 24 gennaio), ricorda che egli si definì homme de lettres, un intellettuale visionario che poi si mise in testa di cambiare il mondo con un’architettura del tutto nuova nella quale, in realtà, l’antico agisce come scheletro del moderno (vi resta nascosto, ma con una funzione portante, che si trasfigura in forme apparentemente nuove, il cui conio viene dal simbolismo più remoto, direi quasi di astrale primordialità; e giustamente, come ricorda Jacques Gubler, in occasione del centenario della nascita di LC, Pierre Saddy organizzò una mostra dal titolo perfetto: Le Passé à réaction poétique).

Molto di ciò che pretendeva Le Corbusier non si è realizzato, oppure è stato tradito, e tuttavia oggi lo si considera come un classico fuori dal tempo. Ma a proposito di scheletri, un critico inflessibile dell’architettura razionalista, Marc Perelman, anch’egli architetto e polemista, a proposito del sistema prefabbricato Dom-Ino, un modulo strutturale con misure standardizzate che fu matrice delle successive ricerche razionaliste di Le Corbusier, già quarant’anni fa aveva parlato di «analitica ossea». In controluce Perelman argomentava: «l’“idea” senza carne dell’architettura – uno scheletro-standard – si prolunga nel progetto finito, vale a dire assimila e parifica la materia all’osso».

Ma il Le Corbusier più noto da dove salta fuori? È stato un enfant prodige? A voler essere onesti, no. Era un giovane dotato, di La Chaux-de-Fonds, nel Cantone Neuchâtel, a cui piaceva seguire suo padre fra boschi e montagne, un giovane che aveva il gusto del cesellatore e, a un certo punto, incontrò il proprio destino iscrivendosi alla scuola d’arte e architettura di Charles L’Eplattenier il quale – come ricorda Bruno Reichlin – lo formò a un moderno regionalismo, gli fece conoscere Camillo Sitte e la sua urbanistica raffinata, lo apri alle ricerche del Werkbund, alle esperienze dell’Art Nouveau, lo convinse ad andare a Vienna dove poi incontrò Hoffmann e le Wiener Werkstätten, infine lo spinse a interessarsi d’architettura e il giovane Charles-Édouard Jeanneret – questo il suo vero nome prima di prendere nel 1920 quello di Le Corbusier –, obbedirà e poi testimonierà che L’Eplattenier lo salvò da un destino mediocre.

Le Corbusier, “Studio per un piatto” (1903-18904)

Le Corbusier, “Studio per un piatto” (1903-18904) - Éric Gachet

Come si vede dai disegni esposti a Mendrisio, Le Corbusier affina le tecniche del disegno e dell’aquarello, lavora meticolosamente ed esegue studi di architetture antiche molto dettagliati (splendido quelle sulle vetrate di Notre-Dame); ha un senso del colore armonico, e quando viaggia tiene taccuini rappresentando scorci di città, edifici, paesaggi, anche ritratti o studi di figura, ma soprattutto lavora sui dettagli decorativi e si avverte chiaramente l’influenza formativa che ebbero i viaggi a Vienna e in Italia (in mostra si possono vedere alcuni fogli eseguiti nel Belpaese del 1907, quando aveva vent’anni).

In quelle prove formative Charles-Édouard cerca se stesso, ma ancora senza trovarsi. Ad aprire la sua immaginazione sarà l’altro suo maestro, William Ritter – di cui la Svizzera in anni recenti ha cominciato a riscoprire l’opera pittorica e letteraria (in mostra alcuni ritratti che gli fece il giovane Corbu) –; temperamento poliedrico, letterato, critico musicale, pittore, Ritter sollecita il giovane allievo a scrivere, soprattutto lo spinge a leggere molto e, cosa decisiva, lo prepara ad affrontare il viaggio in Oriente, incoraggiandolo a prendere nota delle sue esperienze visive con disegni e fotografie. Quello che il futuro architetto sta seguendo è, dunque, un itinerario di formazione, che è cominciato con i viaggi a Vienna e in Italia, è proseguito a Parigi –, dove farà un altro incontro fondamentale, quello con l’architetto Auguste Perret, pioniere nell’uso del cemento armato –; e proseguirà in Germania, da Stoccarda verso varie città tedesche, fra cui Monaco e Berlino, dove entra nello studio di un altro gigante, Peter Behrens.

Le Corbusier, “Notre-Dame de Paris, finestra superiore” (1908)

Le Corbusier, “Notre-Dame de Paris, finestra superiore” (1908) - Éric Gachet

Ormai la via dell’architettura è segnata, ma ancora manca il salto decisivo. Il viaggio è una occasione di accumulo e anche un viatico all’inventio che, nel suo senso etimologico, più che corrispondere alla categoria del “nuovo” delinea una ricognizione per scegliere gli elementi fondamentali del proprio linguaggio, una sorta di elenco programmatico. Sta ancora cercando, il giovane Charles-Édouard, e la svolta viene nel 1911 quando comincia il viaggio in Oriente, che da Praga e Budapest lo conduce lungo il Danubio fino a Istanbul e da lì verso l’oasi greca. Corbu attraversa i Balcani a cavallo e, in Ungheria, descrive, per esempio, la basilica di Esztergom come sintesi di un cubo e di una cupola sorretta da colonne.

Giunto in Turchia, Le Corbusier è letteralmente affascinato dalle case di Istanbul, dalle loro corti interne, dagli intonaci calcinati e bianchi che rendono puri i volumi. Si ferma nella città quattro settimane, nota che molte case sono di legno mentre negli edifici dedicati ad Allah domina la pietra. Disegna nicchie, fontane, giardini, le forme cubiche e il contrasto con quelle a torre: «un gioco magnifico di forme sotto la luce» (annotazione che poi trasformerà dicendo che l’architettura è il gioco dei volumi sotto la luce del sole). Visita i cimiteri, fa fotografie e comincia a elaborare idee nuove. Poi approda all’Acropoli ateniese e resta soggiogato dalle architetture che generano una metafisica del bianco, delle ombre e dei colori interni delle abitazioni.

Se a Flaubert il Partenone era apparso «nero ebano» per Le Corbusier è l’apoteosi perfetta di forme pure e sfolgorio della luce. Tutto questo, in forma più estesa, lo si può trovare nel primo volume del catalogo ragionato dei disegni che la Fondazione Le Corbusier ha affidato alla storica Danièle Pauly: a lavoro concluso diventeranno quattro documentando cinquemila disegni di proprietà della stessa istituzione, ma molti altri, alcuni esposti a Mendrisio, di collezionisti privati svizzeri). I disegni del Partenone mi hanno ricordato, per il taglio prospettico, alcune fotografie di Waldemar Deonna, archeologo svizzero che tra il 1903 e il 1905 fece varie ricognizioni in Grecia, in Asia Minore, fino a Istanbul. Immagini realizzate con la cura tipica dei viaggiatori-studiosi dell’epoca, unendo cioè la funzione documentaria al gusto estetico, esposte vent’anni fa a Ginevra. E viene da chiedersi se alla scuola di L’Eplattenier o nell’atelier di Ritter quelle foto non fossero già conosciute.

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