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«Ci sono persone considerate pericolose per gli atti compiuti: furti, omicidi e cosi via… E ci sono invece interi gruppi ritenuti pericolosi per la loro condizione sociale: mendicanti, emarginati, vagabondi. In una parola: i poveri. Non hanno fatto nulla di male, eppure continuano a essere ritenuti sospetti. Quando e perché abbiamo iniziato ad avere paura degli ultimi? E cosa è cambiato nel corso dei secoli?». Parte da questi interrogativi “Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi” (Laterza, pagine 300, euro 20,00), il nuovo saggio di Enzo Ciconte, storico, docente all’Università di Pavia e fra i maggiori studiosi italiani della criminalità mafiosa. Stavolta però la sua nuova ricerca (presentata a Roma dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e dallo storico Andrea Riccardi e di cui Ciconte parlerà oggi in Calabria al Festival di Trame) va in profondità rispetto a una questione che l’aveva sempre appassionato.
Quanto bisogna risalire, nei secoli, per trovare la prima matrice di un pregiudizio che pesa ancora oggi?
I poveri, purtroppo, sono sempre esistiti. Ciò che storicamente è cambiato, è come sono stati considerati. Ho cercato di ricostruire ciò che è avvenuto dall’età moderna, quando il povero ha perso quell’aura sacrale che l’avvolgeva dal Medioevo, diventando agli occhi dei gruppi sociali dominanti “colpevole” del proprio stato, con una criminalizzazione della povertà.
L’avvento della borghesia e la divisione della società in classi hanno alimentato quella visione distorta?
La borghesia ha imposto una cultura e uno stile di vita nuovi, pretendendo un maggior decoro di città e abitanti, o esigendo la difesa della proprietà e della sicurezza. Ciò ha generato l’idea che i pove- ri, ma anche contadini o operai, rappresentassero un pericolo sociale. Una convinzione ingiusta e sbagliata, eppure divenuta in molte nazioni una pratica di governo e riversatasi dentro le leggi. Ciò ha finito per “classificare” i soggetti da guardare con circospezione e, se del caso, rinchiudere o bandire dal consesso civile. Un pregiudizio che va avanti dal Cinquecento, evidenziando tratti di sconcertante continuità.
Dal fondo della Storia, insomma, riemerge sempre la paura del diverso?
Già. Di fronte a iniziative contro immigrati o homeless, c’è chi le ritiene figlie di quest’epoca. Ma sono ben più antiche. E riproporle significa ignorare il fallimento storico delle politiche rivolte a rinchiudere o nascondere i presunti scarti della società, nell’illusione di risolvere il problema. Oggi convivono forme vecchie e nuove di sfruttamento, perché sono stati in tanti a coprirle col velo dell’ipocrisia. O, ancor peggio, a liberarsi la coscienza con la teoria dello “sgocciolamento” cara ai liberisti, convinti che i benefici dei ceti abbienti favoriscano in modo automatico i poveri, facendo sgocciolaresu di loro stille di quel benessere. Uno che di poveri se ne intende, papa Francesco, ha criticato con chiarezza questa teoria. E non è il solo.
Ogni tanto, dunque, c’è chi squarcia il «velo dell’ipocrisia » generale.
Per fortuna sì, a volte senza volerlo. Nel 2011 il miliardario statunitense Warren Buffett, non certo un vetero marxista, ha dichiarato al New York Times: «Negli ultimi vent’anni è stata combattuta una guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta». E trovo azzeccata l’analisi del sociologo e giornalista Marco D’Eramo, quando dice che negli ultimi cinquant’anni è stata portata a termine una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i sudditi. Una rivoluzione invisibile, avvenuta senza che ce ne accorgessimo.
Nello stesso calderone, insieme ai poveri, finiscono spesso gli stranieri. Per quali ragioni?
Vengono considerati criminali anche quando non hanno fatto nulla per violare la legge. E ciò a causa di una tendenza a definire in termini criminali problemi di natura sociale. Pensiamo al “reato d’immigrazione clandestina”, addossato sulle spalle di chi cerca solo una vita migliore rispetto alla miseria da cui proviene. Il controllo è l’ossessione di tutti i governanti. E sono la cultura dominante, le circostanze e i gruppi di potere in un dato periodo a determinare la scelta di cosa considerare reato, e di se e come punirlo.
La sua ricerca tiene conto dell’opera della Chiesa a sostegno dei meno abbienti?
Sì. Nelle attività assistenziali la Chiesa ha avuto nei secoli un ruolo importante, a volte centrale ed esclusivo. Nella Roma di papa Leone XII, a inizio Ottocento, ad esempio, il ruolo dei parroci era cruciale.
E la Chiesa di adesso?
Papa Francesco ha dedicato alla povertà e alla denuncia delle disuguaglianze molte energie del suo apostolato, fino a farle diventare – a mio parere – l’asse qualificante del suo pontificato.
Posto che la povertà non è un 'peccato originale', cosa si può fare per limitare le disuguaglianze?
È la sfida del nostro tempo, acuita dalle crisi economiche innescata da pandemie, conflitti e disastri ecologici. Le disuguaglianze non sono ineluttabili. Nel Novecento il presidente della Fiat Vittorio Valletta prendeva 12 volte più di un suo operaio. Oggi un supermanager percepisce fino a duemila volte in più. La permanenza di sacche di miseria è la riprova del fallimento delle politiche sociali e delle teorie economiche che pretendevano di ridurle.
E allora come se ne esce?
Nessuno ha la ricetta definitiva, ma è sempre più urgente per il bene dell’umanità individuare strade nuove. E imboccarle, il prima possibile.