Si intitolerà
Lascia il segno l’album col quale il 19 maggio i Nomadi porteranno a trenta il numero di lavori inediti pubblicati in 52 anni di carriera. E in effetti crediamo che le dieci canzoni del disco siano destinate a restare nel tempo: visto che tra indignazione e valori, pop solare e squarci rock, formano uno degli album migliori della storia della band e senz’altro il più bello dell’ultimo decennio. In
Lascia il segno si susseguono canti di reazione al degrado morale che ci circonda (
Non c’è tempo da perdere, singolo che traina il Cd), riflessioni sul razzismo (
Io come te) e i doveri degli artisti (la splendida
Animante), una strenua difesa della purezza e dei sogni contro un mondo dominato dalle banche (
Rubano le fate), canzoni politiche (
Tutti quanti a credere) e brani d’amore (
Chiamami) sino a un magnifico finale che sprona a tornare ai valori semplici e vitali dell’uomo, tra la fede e l’esigenza di abbracciare una vita sociale di impegno fattivo (
Esci fuori (al mio paese)). Beppe Carletti, fondatore dei Nomadi nel 1963 con il compianto Augusto Daolio, sintetizza così il senso di un percorso che continua a dispetto di radio e Tv: «Noi siamo menestrelli che devono cantare quanto vedono intorno, stando dalla parte della gente; e se qui siamo più duri del solito è voluto perché il razzismo esiste, la crisi c’è, i banchieri che ad alcuni danno soldi e ad altri no sono tanti: e se anche le canzoni non possono fermare una guerra devono far pensare, mettere in scena l’Italia di adesso. Magari chiudendo con dolcezza, parlando di fede, valori, serenità per spingere le persone a non sentirsi sconfitte». Sembra proprio che alla fine, dopo un periodo di assestamento, l’innesto del giovane cantante Cristiano Turato abbia ridato linfa ai Nomadi. «È vero, il suo mondo forse ci ha tolto dal pop-rock tout-court per farci puntare su un universo musicale più screziato, a volte grintoso ed altre delicato». Ma al centro resta il ruolo etico dell’artista, quello vissuto dai Nomadi sin dai tempi di
Dio è morto e qui ribadito da
Animante. «In quel pezzo cantiamo che siamo uomini, con le nostre fragilità; ma anche che sul palco non possiamo sbagliare, non possiamo dare messaggi scorretti, abbiamo dei doveri». Concetto che ritorna quando si chiede a Carletti l’importanza del richiamo alla dignità ricorrente in più brani del disco. «Oggi la dignità si è persa, la gente fa cose tremende, manca senso del pudore. Noi cantiamo tale dramma e possiamo farlo solo se per primi come Nomadi ci assumiamo le nostre responsabilità. Se ci vendessimo come potremmo inneggiare alla dignità?». In tour dal 23 maggio (Casalromano, Mantova), i Nomadi anche quest’anno raccoglieranno fondi per il Madagascar, per costruire dopo una scuola anche una mensa nei villaggi locali; e anche in tour ovviamente canteranno contro i troppi “re” di oggi, quelli del brano
Tutti quanti a credere. Chi sono? Grillo? Berlusconi? «Lei legge bene il brano, sono loro ma anche tanti altri, quelli che noi per debolezza seguiamo e cui crediamo sempre, specie in Italia; però troppi, nel mondo, sono i “re” che non aiutano la gente». In tour i Nomadi canteranno anche
Figli dell’oblio, ovvero «i giovani di oggi che si spera si risveglino e diventino protagonisti; molta responsabilità è di noi adulti, ma è tempo che anche loro si diano da fare, e su progetti di vita o solidarietà».
Lascia il segno, a mo’ di promemoria del significato culturale di un disco, uscirà con libretto di sessanta pagine e calendario storico delle date significative nella storia della band, anche perché «la memoria storica della nostra canzone è a rischio; in Francia
Hallyday è un mito, da noi parlamentari e dirigenti radio ci bistrattano. E così non aiutano neppure i giovani, i cui dischi durano sei mesi». Ma va ben oltre il rammarico per le scelte dei media, Carletti, quando risponde alla domanda su quale segno vorrebbe lasciassero i Nomadi nel tempo, chiudendo il nostro incontro con parole che pesano. «Vorrei fosse un segno di umanità, ma anche di canzoni. Per molti non esistiamo più, siamo vecchi? Pazienza. Quello che conta, sa, è essere il target della gente comune, delle diecimila persone che ci vengono a vedere alle feste dei santi patroni nei paesi. Questo conta, per noi: che comunque, e vorrei si ricordasse, negli anni Sessanta rinunciavamo alla tv per cantare i valori».