Max Ernst, "L'Europa dopo la pioggia II" (1940-42) - .
In una plaquette stampata il 31 maggio di settant’anni fa, Notes sur la magie et le vol, lo scrittore francese Marcel Jouhandeau descrive molto bene la condizione del mago e può servire anche per avvicinarsi alla questione del magico nel surrealismo: «La maggior parte dei maghi sono le prime vittime della loro arte. È su di loro che si esercita per prima la loro fantasmagoria, i poteri che creano, essi tuttavia agiscono anche intorno a loro, malignamente il più delle volte, ma, raramente, quando li hanno vinti o purificati, anche per la felicità degli altri qualche volta». C’è da aggiungere, come nota a margine, che l’editore parigino della plaquette, Marcel Zerbib, dirigeva la libreria che porta il nome del primo libro che Gallimard pubblicò di André Breton, Les pas perdus (1924), che raccoglie articoli scritti fra il 1917 e il 1923, dedicati a figure come Picabia, Duchamp, Picasso, De Chirico, Max Ernst, ma anche a Louis Aragon, Paul Eluard, Philippe Soupault, Pierre Reverdy e ad Apollinaire. Un libro, questo, che qualcuno ha definito la rampa di lancio per il Manifesto del Surrealismo , in anticipo di quasi un anno sul primo numero della “Revolution surrealiste”. Breton stava elaborando il passaggio oltre il dadaismo e avvisava: «Non dirò che il dadaismo non sia servito ad altro che a mantenerci in questo stato di perfetta disponibilità in cui siamo e dal quale ora ci allontaniamo con lucidità verso ciò che ci chiama ». Affermazione antifrastica, ma quella presa di distanza nell’idea della chiamata è sia religiosa che magica, uno squarcio di luce sulla strada che porta il surrealismo verso l’occulto.
Il rischio oggi è di dare a questo spazio “mentale” una intonazione femminile – maga, strega, medium, astrologa, sono tutte facili associazioni con una linea di pensiero matrilineare –, come è chiaro fin dalla sala-cripta allestita da Cecilia Alemani nel padiglione centrale dei Giardini per la sua Biennale in corso, sorta di archeologia femminile dello spazio mesmerico, isterico e sonnambulo della modernità. Una scelta che ricorre, sia pure in modo specifico, anche nella mostra Surrealismo e magia in corso alla Collezione Guggenheim sul Canal Grande (a cura di Gražina Subelyte e Daniel Zamani) fino al 26 settembre. A fare da traitd’union fra le due rassegne è Leonora Carrington, postuma copywriter che tiene a battesimo la Biennale veneziana col “latte dei sogni”, ma da Palazzo Venier dei Leoni ci tengono a mettere in chiaro che la loro mostra è stata pensata già quattro anni fa, quindi ben prima che l’Alemani si appropriasse della Carrington, e che l’apertura posticipata è dipesa soltanto dalle condizioni imposte dal Covid (il primato viene ribadito fin sulla copertina del catalogo, dove figura un particolare tratto dal quadro della Carrington, I piaceri di Dagoberto del 1945).
Sia come sia, le mie perplessità sul ruolo di primo piano delle donne surrealiste restano intatte. Mettiamola così: pochi sono, e tutti uomini, i maghi surrealisti. Questo anche se può dispiacere a chi oggi si lancia in difese sull’eccellenza delle donne ogni volta che offre lo spunto per mostre che non di rado stuccano e sono, senza nemmeno troppi infingimenti, operazioni politically correct a fin di marketing: il mondo femminile rende bene al botteghino dell’arte.
Il più grande di tutti i maghi surrealisti è senza dubbio Max Ernst, seguito a ruota da André Masson; Salvador Dalí invece è un mago più prestigiatore che “mediatore” con l’arcano e il sogno; in misura diversa – ma pur sempre con uno stile molto forte e riconoscibile – sono magiciens Wolfgang Paalen e Kurt Seligmann, come, in forma più astratta e mentale, Sebastian Matta. In mostra mancano all’appello, e francamente è molto strano, Giacometti e Miró, ma sono esposte varie opere di Enrico Donati, nel quale il fattore psichico è quasi una giustapposizione estetica a una struttura simbolica più arcaica e quasi feticistica (le sue opere si trovano soprattutto in musei americani).
I due belgi visionari, Magritte e Delvaux, pur esposti sono rimasti fuori da questa mia squadra dei maghi surrealisti, e le ragioni paradossalmente sono le stesse che mi spingono a dire che il principio femminile nel surrealismo è l’oggetto non il soggetto della creazione. L’universo magico maschile organizza la forma, scava sotto l’occulto, struttura l’esoterico per organizzare il terrore e la paura dell’ignoto, mentre il femminile è sostanzialmente “illustrativo”, narrativo attraverso una immagine che dichiara l’autoconsapevolezza di essere causa del meraviglioso, dell’arcano, del magico nelle proiezioni della mente maschile. In questo senso, nonostante la loro mascolinità, Magritte e Delvaux ricadono nell’illustrativo, cioè nella visione femminile.
Lo ha ben rappresentato Omero nell’Odissea con l’episodio di Ulisse e la maga Circe. Ulisse è avvertito da Ermete, dio e mago, di stare molto attento con Circe, ma senza rifiutare la sua proposta amorosa, perché respingere un dono può essere pericoloso (sembra quasi un sacerdote del potlatch tribale). Il giuramento che Ulisse strappa a Circe affinché non si accanisca su di lui come ha fatto coi suoi compagni trasformandoli in porci, cani, leoni, lo mette al riparo dal “veleno funesto” della maga: essa anzi s’innamora e riporta i compagni di Odisseo allo stato di uomini. Il seguito è forse il momento più prossimo al pensiero surrealista: Circe lascia partire l’eroe greco e i suoi ma lo avverte anche del viaggio che dovrà affrontare nell’Ade dove troverà il cieco indovino Tiresia a guidarlo. Ulisse deve sottostare a un rituale che, tutto sommato, potrebbe essere quasi una tavola sinottica per i surrealisti e la loro traversata della psiche-oceano: la fossa scavata e il rito della libagione dei morti con miele e latte, vino e acqua... «E spargi bianca farina, e supplica molto le teste esangui dei morti, promettendo che, in Itaca, sterile vacca bellissima, sgozzerai in casa e riempirai il rogo di doni; e per Tiresia a parte offrirai un montone tutto nero...».
Questo racconto che al suo centro trova ancora il femminile è un mito originario che, proiettato nel nostro tempo, può servire per comprendere anche come il maschilismo surrealista non sia affatto una questione di genere (Breton capotribù in una confraternita dalla quale è estromessa la donna. Eccezione fatta per Meret Oppenheim che nel 1931, mentore Giacometti, siede alla tavola rotonda: la sua bellezza è pari al suo genio, e lei sembra una incarnazione dell’androgino primordiale, dell’umano indiviso). L’irrazionale surrealista è psichico e plastico, performante come il desiderio maschile preso nell’incantesimo della strega. La trasmutazione alchemica, che i surrealisti (ma già Duchamp nel periodo dadaista e al tempo del Cabaret Voltaire, con Hugo Ball carico di bollori religiosi) declinano in molteplici sfere, dall’animismo alla demonologia, fino al mito bretoniano della rigenerazione attraverso le dee della fertilità e del rinnovamento della natura, è la partenogenesi di un mondo parallelo dalla mente dell’artista celibe, dove lo stesso fato emerge freudianamente da dinamiche inconsce (vedi i sogni ipnotici di Desnos o l’automatismo del cadavre exquis).
Un mondo stretto nella morsa di un tempo che va a finire: l’opera che con più intensità esprime questa tragica coscienza è L’Europa dopo la pioggia. II di Max Ernst, dipinto tra il 1940 e il ’42, mentre la guerra in Europa infuria. Ci presenta una terra fossilizzata nella distruzione, sulla cui pelle proliferano i licheni avvelenati dell’odio belligerante fra popoli fratelli: demoni, caverne, architetture fantastiche, cavalli dell’apocalisse, maschere di stryge e gargoyle, scheletri e presenze femminili... Il surrealismo è in effetti il parto transgenico del clima esistenziale prodotto dalla “inutile strage”, dai suoi mostri ripugnanti (i riferimenti a certe iconografie del tardomedioevo tedesco si trovano spesso nell’opera di questi artisti) e dal sigillo finale dell’altra guerra a un ciclo storico durato trent’anni, che ha ridisegnato il continente. Anche sotto questo aspetto, il sentimento tragico della vita nelle figure femminili segue percorsi più intimistici, ovvero psichici soltanto nella dimensione del sogno e della narrazione interiore. Il canone di Leonor Fini, di Dorothea Tanning (la più vicina alla sensibilità maschile), di Leonora Carrington è un universo immaginario che nasce dalla favola, dal sentire che custodisce il frutto e lo fa levitare nel sogno come una sorta di sacrificio materno.
Non ci vedo per forza una valenza politica, dove l’androgino, per esempio, viene qui inteso in modo controculturale rispetto al nostro tempo, cioè come immagine di cambiamento sociale verso la donna. Assistiamo piuttosto a un processo autosacrificale (come quello di Frida Kahlo), tradotto nel genere più prossimo al diario personale, anziché come performatività del gesto poetico. Ma – per ritornare al pensiero di Jouhandeau ricordato all’inizio – la magia del surrealismo procura in genere poca felicità.