Italo Calvino a Oslo nel 1961 - Johan Brun / WIkiCommons/ CC BY-SA 4.0
Italo Calvino, nato esattamente cento anni fa, il 15 ottobre 1923, appartiene a una generazione che ha ancora pensato agli universali come giustificazione e modalità di rappresentazione, e comprensione, della vicenda individuale; con visione cosmica e angosciata (Paolo Volponi, La macchina mondiale, 1965), con appagata adesione (Umberto Eco, Il problema estetico in san Tommaso, 1956, citando Huizinga: «La bellezza dell’arte […] converte immediatamente questo sentimento in un senso di comunione con Dio o in gioia di vivere», Conclusioni; sarà poi l’orizzonte del Nome della rosa), con meditata autocoscienza: «l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi» (Italo Calvino, L’universo come specchio, in Palomar, 1983).
Il fascino dell’opera di Calvino è tuttavia nel fatto che l’universo osservato e l’universo immaginato (Le città invisibili) tendono a sovrapporsi, a insinuarsi uno nell’altro, nello spazio e nel tempo (La memoria del mondo); un punto qualsiasi, intensamente osservato – La pancia del geco –è matrice di infinito: «Possiamo vedere il giardino di sabbia come un arcipelago d’isole rocciose nell’immensità dell’oceano, oppure come cime d’alte montagne che emergono da un mare di nuvole. Possiamo vederlo come un quadro incorniciato dai muri del tempio, o dimenticarsi della cornice e convincerci che il mare di sabbia s’espanda senza limiti e copra tutto il mondo» (L’aiola di sabbia, da Palomar).
Importa qui osservare quali siano gli “operatori” di siffatta conversione dall’individuale al cosmico, dal particolare al globale. La mobilità delle sabbie certo, e il pulviscolo innumerabile dei granelli: basti pensare a Collezione di sabbia, 1984, con un ricordo – non spento – dell’immagine agostiniana (Confessioni, V, 3). Ma questa «utopia pulviscolare», lungi dal favorire – come è stato interpretato – la mobilità dell’informe, cerca ancor più di “cristallizzare” il fenomeno in sequenza, in forma, costruendo – grano per grano – un insieme coerente: «Insomma l’utopia come città che non potrà essere fondata da noi ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi pezzo per pezzo nella nostra capacità di immaginarla, di pensarla fino in fondo, città che pretende d’abitare noi» (Per Fourier. III. Commiato. L’utopia pulviscolare).
Altro operatore simbolico di tale universalità è la “ramificazione ascendente” dell’albero: già Calvino ne aveva saggiato con sapienza la simbolica nel Barone rampante, 1957; ma essa diviene poi interrogazione universale nel trittico: La forma dell’albero, Il tempo e i rami, La foresta e gli dei, che costituiscono la sezione Messico in Collezione di sabbia, da cui salgono acute inquietudini critiche per i tempi di un’opulenza che fu spreco: «È attraverso un caotico spreco di materia e di forme che l’albero riesce a darsi una forma e a mantenerla? Vuol dire che la trasmissione d’un senso s’assicura nella smoderatezza del manifestarsi, nella profusione dell’esprimere se stessi, nel buttar fuori, vada come vada? Per temperamento ed educazione sono sempre stato convinto che solo conta e resiste ciò che è concentrato verso un fine» (La forma dell’albero).
Gli universali e la finalità: è un’inquietudine che ha percorso – retaggio della civiltà medievale – i migliori anni (Sessanta – Ottanta del XX secolo) dei “sistemi di modelli”, dagli schemi di Claude Lévi-Strauss, nella sua Anthropologie structurale, 1958: «ainsi Pausanias, VIII, XXIX, 4 : le végétal est le modèle de l’homme» al saggio di Eco appunto: Dall’albero di Porfirio al labirinto enciclopedico, 1981. E da quella morfologia l’immagine si dilata, in Calvino, alla storia umana: «Più che all’albero di Jesse, un albero genealogico che volesse rendere veramente quel processo di procreazioni e di morti che è la sopravvivenza umana dovrebbe somigliare a un albero vero con le sue ramificazioni contorte e disarmoniche, i suoi moncherini, il suo succo e il suo verde, le potature del caso e della storia, il suo spreco di materia vivente. Anzi, dovrebbe somigliare proprio all’albero di Tule, dov’è non chiaro cos’è radice e cos’è tronco e cos’è ramo» (Il tempo e i rami).
C’è infatti in Italo Calvino una tensione (che fa della sua opera un’affascinante scissura e ricomposizione di aneliti) tra modelli di perfezione cristallografica e anamnesi dolenti dell’imperfezione umana, meditata nella Giornata di uno scrutatore, in attesa forse di una catastrofe o palingenesi: «Non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro» (Tre storie di follia e distruzione, da Il castello dei destini incrociati).
Così sarà infatti in Palomar, il cui esercizio finale – varcato «Il modello dei modelli» – sarà proprio Come imparare a essere morto, «quando l’ultimo supporto materiale della memoria del vivere si sarà degradato in una vampa di calore, o avrà cristallizzato i suoi atomi nel gelo d’un ordine immobile». Questo «raccogliersi nella fine» è forse il lascito etico più importante, la lezione essenziale di Italo Calvino; l’anelito di uscire – come il Re in ascolto – dalla prigione delle convenzioni, lasciando che il reticolo dei poteri esploda; che la nostra vita e quella dell’universo e dei cieli – come nel Fourier ch’egli aveva tradotto – si ripieghi, rotolo d’Apocalisse: «Solo alcune vecchie stelle sanno uscire dal tempo […]. Arrivate all’estremo della loro decrepitezza, rattrappite […], sottratta la loro luce allo spreco del firmamento, diventate la buia cancellatura di se stesse, eccole mature per l’inarrestabile collasso in cui tutto, anche i raggi luminosi, ricade all’interno per non più uscirne. Sia lode alle stelle che implodono. Una nuova libertà s’apre in loro: elise dallo spazio, esonerate dal tempo, esistono per sé, finalmente, non più in funzione di tutto il resto» (L’implosione, in Tutte le cosmicomiche).
«Solo così – concluderà Calvino – si penetra in uno spazio-tempo in cui l’implicito, l’inespresso non perdono la propria forza […], in cui il riserbo, la presa di distanza moltiplicano l’efficacia d’ogni atto» (ibid.). Di fronte al dramma dell’inanità umana, solo il «riserbo» mantiene intatta la dignità e «l’inespresso» custodisce il pudore dell’indicibile.