Le cronache del tempo ce lo raccontano come un uomo che non diceva di no ai piaceri della vita, primi fra tutti quelli della tavola tanto che un dipinto del tempo lo ritrae al clavicembalo con il muso da maiale, seduto su una botte di vino e circondato da selvaggina. Un genio della musica, capace di raggiungere vette spirituali come quelle dell’Hallelujah che in questi giorni è risuonato assai spesso nelle nostre chiese. Ma anche un uomo che amava la vita. E anche per questo, forse, non è difficile – fantasticando, s’intende – immaginarlo oggi allo stadio a vedere una partita di Champions league, magari del Chelsea, squadra di calcio di Londra che per 48 anni è stata la sua città, mentre gli altoparlanti diffondono le note del suo Zadok the Priest, brano diventato, appunto, l’inno della Champions. George Frideric Händel – o anche Georg Friedrich Haendel per dirlo alla tedesca, dato che il musicista nacque ad Halle, in Sassonia, il 23 febbraio del 1685 – amava la buona tavola e pare fosse assai tirchio. Almeno stando a una ricerca di David Hunter (il quale azzarda l’ipotesi di morte per avvelenamento da piombo, ai tempi usato per conservare il vino durante il trasporto in nave), pubblicata sui principali quotidiani inglesi alla vigilia dell’anniversario, che si celebra oggi, dei 250 anni della morte del musicista. Due secoli e mezzo – e debolezze umane – che non ne hanno offuscato la fama. Anzi. Basta andare su un motore di ricerca in Internet e scoprire che le pagine dedicate al compositore sono oltre un milione, a partire dal sito italiano haendel.it. Aprire You tube e trovare qualcosa come 900 video. Entrare in Facebook e contare 4658 fan virtuali. Numeri impressionanti, così come quelli della sua produzione: oltre seicento i lavori che Händel ha lasciato tra cui 40 opere per il teatro ( Alcina, Ariodante, Giulio Cesare in Egitto, Orlando, Rinaldo, Semele sono alcuni titoli regolarmente in repertorio, a differenza dell’Italia, nei teatri di tutto il mondo), 32 oratori (due su tutti, il Messiah e La Resurrezione), 300 cantate e un consistente numero di composizioni strumentali (basti ricordare la Water music o la Musica per i reali fuochi d’artificio). Numeri da fare invidia a una rockstar. Tanto più che Händel – che vanta il primato di essere l’unico musicista al quale è stata dedicata una statua mentre era ancora in vita e che fu sepolto nell’abbazia di Westminster – ha molto in comune con i grandi della canzone di oggi: se sono sempre numerosi i giovani che affollano i teatri dove c’è in cartellone un’opera del compositore, in un’ipotetica hit parade della musica classica il nome di Händel risulterebbe sicuramente ai primi posti. Per questo anniversario si sono moltiplicate le uscite discografiche: Cecilia Bartoli ha inciso Semele, Ottavio Dantone si è confrontato con i Concerti per organo, Giovanni Antonini ha diretto i Concerti grossi, Alan Curtis una nuova edizione di Alcina. E persino il tenore del momento, il messicano Rolando Villazon, ha voluto cimentarsi per la prima volta con arie handeliane. Londra si prepara a celebrare il compositore con la mostra Händel ritrovato, allestita nella sua casa di Brook street. Händel era un uomo che amava la vita. Che amava la musica tanto che all’età di 12 anni si esercitava di notte su un cembalo nascosto nel granaio di casa perché il padre, che sognava per lui un futuro come uomo di legge, ostacolava la sua passione. Una passione che coltivò sino all’ultimo: diventato cieco per un intervento agli occhi praticatogli con strumenti non sterilizzati da un mezzo ciarlatano (un tale John Taylor che compromise nello stesso modo la vista anche a Bach) non smise mai di scrivere musica. Lo fermò solo la morte, il 14 aprile del 1759.