Martin Heidegger nel suo rifugio presso il villaggio di Todtnauberg, nella Foresta Nera - archivio
«A ben vedere Infatti tra Parmenide ed Eraclito sussiste il massimo accordo, come fra tutti i veri filosofi, non perché si sottraggano alla disputa, ma proprio in virtù di un’originarietà di fondo che assume di volta in volta un carattere peculiare. Viceversa, non v’è dubbio che al non filosofo, che resta attaccato solo a opere, opinioni, correnti, nomi e titoli, la storia della filosofia e dei filosofi offra lo spettacolo di un manicomio». Già queste parole bastano a esprimere lo stile di pensiero di Martin Heidegger, uno dei giganti della filosofia del Novecento, e il suo atteggiamento caustico dinanzi alla pedanteria di certi storici e filologi. Di par suo, Hans Georg Gadamer, in un’intervista, ricordava di quanto fosse travolgente assistere alle lezioni di Heidegger perché consentivano agli studenti di imbattersi in presa diretta nell’esercizio del pensare, nel suo cammino e nel corpo a corpo intrapreso da Heidegger con i frammenti giunti fino a noi dei primi pensatori della tradizione filosofica. Il corso L’inizio della filosofia. Interpretazione di Anassimandro e Parmenide (pagine 310, euro 42,00), che l’editore Adelphi da venerdì renderà disponibile nelle librerie, lo testimonia anche con la sua trascrizione pur non permettendo al lettore di assaporare dal vivo l’argomentare del pensatore in aula. Ma non è l’unica opportunità che le lezioni offrono al lettore. Infatti l’edizione dei corsi filosofici del filosofo tedesco, in particolare questo, curato da Peter Trawny e da Giovanni Gurisatti, autore per la versione italiana anche di una perspicua introduzione, permette di addentrarsi nell’atelier di pensiero dove Heidegger smuove le interpretazioni consolidate dell’Inizio della filosofia occidentale, tentando di battere sentieri inediti per aprire l’uomo alla comprensione dell’essere e dunque alla sua trascendenza. Tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1932, tra il 26 aprile e il 26 luglio, presso la Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, il corso si svolge in un momento cruciale del pensiero di Martin Heidegger. Durante quel torno d’anni, già a partire dal 1930, egli tenta di oltrepassare la metafisica per volgersi alla verità dell’essere, intesa non più come conformità o coincidenza tra un pensiero e una cosa ma come quell’apertura che consente all’essere di manifestarsi. Per assumere l’atteggiamento necessario ad accogliere la verità dell’essere, Heidegger ritiene necessario ripensare i momenti aurorali della tradizione occidentale. Occorre ritornare a prima che la verità dell’essere venisse intesa come una semplice proposizione corretta. Per farlo, il corso del 1932 imbastisce un serrato confronto con la parola di Anassimandro e la parola di Parmenide, lungo un percorso scandito da tre momenti. Il primo dedicato all’interpretazione del celebre detto di Anassimandro, la prima testimonianza della filosofia occidentale, il terzo al Poema di Parmenide, inframezzati dal secondo, la Considerazione intermedia, che costituisce l’orizzonte teoretico entro il quale assume senso il lavoro di scavo e interpretazione condotto sui frammenti dei due pensatori greci. Di quanto Heidegger si ponga in rottura con la visione tradizionale del loro pensiero lo si deduce dall’abbreviazione “Aldo” presente nelle annotazioni preparatorie al corso che corredano il libro. Il mistero del suo significato è sciolto da una glossa riportata nella trascrizione delle lezioni realizzata dal fratello Fritz. “Aldo” sembra alludere, riprendendo le lettere iniziali delle due parole, all’unità di Aletheia ( Verità) e doxa (opinione). Egli rompe così con la loro apparente op-posizione, allora molto diffusa tra gli interpreti, reputando che solo colui che ha fatto esperienza dell’opinione può decidersi di imboccare la via che conduce alla Verità, intesa come il manifestarsi dell’essere. Non deve infastidire l’impresa del solitario di Meßkirch. Essa non rischia di ridursi, come si potrebbe sospettare, a un’attitudine intellettualistica. Dietro alla riflessione heideggeriana si adombra una dimensione etica, per quanto il pensatore diffidi di questo termine, ben visibile proprio nella Considerazione intermedia ma anche in altri momenti delle lezioni. La necessità di ripensare i primi passi della filosofia, o detto diversamente di ripensare l’inizio, significa per Heidegger non tanto criticare dei modelli interpretativi passati quanto aprirsi alla storia e alla storicità. Di là dall’adagiarsi sulla lettera del dettato heideggeriano, si tratta di un tentativo a non rinchiudersi in un vieto determinismo che induce a pensare che il corso degli eventi sia già definito in partenza. Ripensare l’inizio significa pensare le condizioni che consentono di rompere, come sottolinea anche Gurisatti, con una concezione della storia ingenuamente lineare e con una concezione della temporalità strettamente cronologica, in cui i momenti seguono meccanicamente uno all’altro. Infatti «nell’attimo stesso in cui concepiamo il nostro essere-umani in quanto existentes, – precisa Heidegger – il compito di iniziare l’inizio diventa la prima e ultima necessità. Allora però l’inizio non sta più dietro di noi, alle nostre spalle, come qualcosa di lasciato indietro e di passato di cui ci si è liberati, e nemmeno si trova semplicemente nella estrema vicinanza, bensì sta davanti a noi in quanto compito essenziale della nostra più propria essenza ». Se, «finché noi esistiamo, quell’inizio continua ancor sempre ad accadere», rimane allora la possibilità che un altro inizio sia sempre percorribile. Solo così diventa possibile trascendere, questo è il senso in cui Heidegger adotta il termine, l’epoca della metafisica che ha ridotto la verità a pura esattezza dimentica della possibilità dell’essere a manifestarsi. Ecco perché per Heidegger «l’essenza dell’uomo consiste nella sua esistenza. E questa sua essenza è possibile sul fondamento della trascendenza. La trascendenza accade come comprensione dell’essere» e «in quanto comprensione dell’essere, l’esistenza è lasciare essere: libertà. Il passaggio alla libertà conduce alla sveltezza, dunque a una liberazione “da” e ”per”».