Una piccola corrispondenza, solo quindici lettere, tra due grandi donne, da cui trapelano le drammatiche domande del XX secolo. Le amiche sono la filosofa Hannah Arendt e la storica Leni Yahil, due intellettuali ebree che si incontrano a Gerusalemme nella primavera del 1961, in occasione dell’inizio del processo Eichmann, il criminale nazista responsabile della deportazione e della morte di molte migliaia di ebrei. “Rapito” dai servizi segreti israeliani in Argentina, Eichmann viene trasferito in Israele e portato in tribunale alla presenza di molti testimoni sopravvissuti alla Shoah, in un processo voluto dall’allora primo ministro David Ben Gurion anche a scopi “pedagogici”: elaborare in ambito ebraico il trauma dell’esperienza nazista e forgiare un ethos diverso da quello esilico nelle nuove generazioni di ebrei israeliani. Tutto il mondo ne parlò. La posta in gioco era grande: chiudere o meglio affrontare un passato recente enormemente doloroso, e complesso dal punto di vista storico, e far comprendere come l’obbedienza cieca e irresponsabile non fosse più una virtù per nessuno. Tornata in America (la sentenza non è ancora stata emessa), Arendt riceve un piccolo regalo dalla sua nuova amica israeliana, una “mano della fortuna” con una lettera d’amicizia.
È l’inizio di un dialogo epistolare dove però già emergono le spinose questioni sulle quali le idee delle due amiche divergono: la laicità di Israele e il rapporto con la tradizione, la separazione tra religione e stato, il senso del sionismo e del nazionalismo ebraico... Grande simpatia sul piano umano ma progressive dissonanze sul piano ideologico, politico e persino culturale. La rottura tra le due si consuma tra il marzo e l’aprile del 1963, a processo concluso e sentenza (di morte) eseguita, quando i reportage della Arendt sul processo di Gerusalemme escono sul “New Yorker” e il mondo ebraico insorge contro i commenti e le obiezioni che la filosofa ebrea-tedesca- statunitense muove al processo stesso. Queste lettere, scritte originariamente in tedesco e inglese, e rimaste a lungo private, sono ora disponibili in italiano (Hannah Arendt, L’amicizia e la Shoah. Corrispondenza con Leni Yahil, introduzione di Ilaria Possenti, traduzione di Fabrizio Iodice, Edb, pagine 112, euro 9,80) e fanno riflettere, perché anticipano i temi di un’altra dolorosa rottura amicale, quella tra la stessa Arendt e Gershom Scholem, in due lettere rese subito pubbliche, dove lo studioso di qabbalà accusa l’autrice di La banalità del male (che raccoglie quei reportage sul processo Eichmann) di aver espresso giudizi falsi e avventati (falsi appunto perché avventati), di non essersi messa a sufficienza nei panni degli e- brei perseguitati dal regime nazista e di mancare di quella solidarietà e sensibilità umana, «il tatto del cuore » dice Scholem, senza il quale i giudizi storici rischiano di mancare l’obiettivo.
È interessante vedere in parallelo le reazioni di Yahil e di Scholem all’approccio della Arendt: la storica della Shoah le chiede brutalmente a chi pensa di servire con i suoi duri giudizi: alla verità storica? Oppure alla giustizia? Al popolo ebraico o al popolo tedesco? O vuole negare a Israele il diritto a una giustizia che non può conseguire altrove se non in un proprio stato? E Scholem, poche settimane dopo, le rinfaccia di mancare di amore per il popolo ebraico e di cadere in contraddizione con le riflessioni sul totalitarismo dei suoi libri precedenti. Già nelle risposte all’amica israeliana Arendt è chiara: si processano le persone, non le ideologie o gli stati; quello che le sta a cuore è capire e valutare le responsabilità dell’individuo e non i sistemi in quanto tali; e ciò anche a costo di smettere di parlare di «male radicale» e fermarsi invece a pensare il «male estremo», appunto più esteso che profondo. Da qui la tesi della «banalità del male», che per oltre cinquant’anni ha fatto discutere filosofi e sociologi, storici e scienziati politici. Questo carteggio illumina quella riflessione al suo stato nascente, e se poco aggiunge ai contenuti, molto aiuta a capire che il rigore intellettuale della Arendt, che non teme di andare controcorrente e ben coglie, e se non denuncia tuttavia evidenzia i punti più critici della nuova espe-anzitutto rienza politica dello stato di Israele: il rapporto tra la laicità delle istituzioni e il retaggio religioso del popolo ebraico ovvero il conflitto tra modernità e tradizione, la separazione tra stato e sinagoga, il rischio che un legittimo patriottismo sconfini nell’estremismo tipico di ogni nazionalismo.
Avevano ragione Scholem e Yahil a rimproverare alla loro amica di non capire il momento storico, unico e irripetibile, che stava vivendo la giovane nazione ebraica nata (anche) dalle ceneri della Shoah? O aveva ragione la Arendt nell’insistere che, nei sistemi totalitari, la linea tra vittime e persecutori resta confusa... e che già quella generazione era in grado di esprimere giudizi storici ben precisi sugli eventi contemporanei? Forse, in questo avvio di dibattito mancò una categoria che sarebbe emersa lentamente tra gli studiosi, che anzi fu formulata in modo chiaro solo da un testimone-pensatore come Primo Levi, la categoria della «zona grigia». E anch’essa, all’inizio, fu fraintesa e avversata, come se volesse offuscare la linea di demarcazione tra vittime e carnefici, tra chi il male lo subisce e chi lo compie, e sollevare i nazisti dalle loro responsabilità. Ma in Levi era chiaro che l’esistenza innegabile della zona grigia nei sistemi totalitari non fa venir meno la «colpa dei carnefici», che in ultima istanza sono responsabili anche della corruzione morale delle loro vittime. La distinzione resta netta, anche nel grigiore delle condizioni storiche dei regimi di terrore. Su un punto, credo, Levi e Arendt avrebbero concordato: che le responsabilità penali restano comunque individuali, in tribunale si portano e si valutano le azioni degli individui e non i sistemi e le ideologie, dato che questi ultimi sono meglio vagliati, e se necessario condannati, dai tribunali della ricerca dei fatti, della valutazione etica e non ultimo del giudizio critico degli storici.
Ecco perché, pur nelle divergenze e nelle obiezioni alle procedure del processo Eichmann, Hannah Arendt non dubitò mai che la sentenza fosse giusta, soprattutto se venne dettata non dal «cuore», dalle molte emozioni che il processo aveva suscitato, ma dai fatti, ossia dalle azioni (malvagie) compiute dal gerarca nazista. Del resto, anche Scholem approvò la sentenza anche se si era attivato, senza successo, per una sua sospensione. Così la Storia, termine che alla Arendt non piaceva perché ciò che conta sono solo le storie, si è frapposta tra amici, pur tutti ebrei e in un certo senso sopravvissuti alla Shoah. Si è frapposta e ha rotto quel sentimento, quell’empatia che, da Aristotele in poi, chiamiamo amicizia. È una dinamica che la storia del pensiero occidentale ben conosce: « amicus Plato, sed magis amica veritas » ossia Platone è un amico, ma ancor di più lo è la verità. Peccato (o fortuna) che, nei giudizi storici, spesso tale verità assume volti nuovi in epoche diverse.
La corrispondenza fra la filosofa e la storica si interrompe bruscamente nel 1963, dopo gli articoli pubblicati dalla prima sul processo Eichmann e riuniti nel volume “La banalità del male”
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