martedì 14 novembre 2017
L’Apocalisse di Giovanni è il testo che meglio spiega l’autore cileno. «Leggo Montale. Cerco di imparare da Petrarca». La sua raccolta “Mal d’amore” fu l'unico libro di poesia vietato da Pinochet
Le apparizioni e le profezie censurate del cileno Hahn
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L’Apocalisse di Giovanni è un testo fondamentale per comprendere la poesia di Óscar Hahn. I riferimenti alla rivelazione giovannea non sono da intendere in ambito schiettamente teologico, ma nell’ottica di una critica antimilitarista operata dal poeta cileno contro la dittatura di Pinochet e la politica americana in Afghanistan e in Iraq. Eppure, Hahn non è un autore civile stricto sensu. Nelle sue liriche più intense - riferibili alla linea ispanica del “fantastico”, molto prossima alla poesia metafisica europea domina la figura della donna amata, percepita come presenza viva e umanissima, e al contempo come “tu” irraggiungibile, la cui essenza sfugge a ogni effetto palpabile del reale, tanto da non poter essere nemmeno nominata. L’eterno femminino risente anche e soprattutto della declinazione materna relativa alla pura salvaguardia: «Ricordo che quando ero bambino/ e avevo gli incubi sognando il diavolo/ correvo per entrare nel tuo letto/ e adesso a volte ho molta paura mamma/ e non voglio avere più paura/ voglio che tutto l’universo sia come un grande letto/ in cui possa entrare quando ho paura/ e tu sei al mio fianco benché non possa vederti». Tre volumi pubblicati da Raffaelli in rapida sequenza ( Tutte le cose scivolano, 2015; Scintillii in uno specchio rotto, 2016; Mal d’amore, 2017), a cura di Gianni Darconza, illustrano gran parte della produzione di uno dei maggiori poeti sudamericani viventi.

Com'è nata la sua passione per la poesia?
«A sedici anni non avevo alcun interesse per la poesia. In realtà, non avevo letto praticamente nulla. A quel tempo vivevo a Rancagua, andavo a scuola e avevo una ragazza di quindici anni che frequentava un’altra scuola. Entrambi uscivamo alle 17 e ci vedevamo in una piazza vicina. Un pomeriggio mi disse: “Voglio che tu mi scrivi un acrostico”. Non avevo la minima idea di cosa fosse un acrostico [NdR componimento poetico nel quale le lettere iniziali dei versi, lette verticalmente, formano una parola, in questo caso il nome della ragazza], ma per uscire dal guado le risposi: “Te lo porto domani”. Andai a casa di un amico più grande che era poeta, e gli raccontai l’accaduto. Mi rassicurò subito: “Non preoccuparti, lo scrivo io per te”. Il giorno dopo tornai dalla ragazza. Immediatamente mi chiese il testo. Glielo diedi. Dopo averlo letto, osservò: “Non l’hai scritto tu. Fanne un altro qui”. E mi prestò carta e matita. Non avevo altra scelta, provai a scriverlo. Lo lesse e rimase sorpresa: “Bene, ti credo”. Era stato abbastanza facile per me scrivere l’acrostico. Pensai: forse sono un poeta. Poi, poco a poco, composi circa venticinque poesie in un quaderno. Nel tornare a casa dalla scuola ero solito attraversare un piccolo ponte su un fiume. Un giorno, rilessi le poesie. Le trovai molto brutte, gettai il taccuino nel fiume. E dimenticai la vicenda. Qualche mese dopo, spontaneamente, alcuni versi cominciarono a emergere. Non ero disgustato e continuai a provare. E così finora».

Come ha vissuto gli anni della dittatura di Pinochet?
«Il golpe militare avvenne l’11 settembre 1973. Passai dieci giorni in prigione e fui liberato. Ma quando qualcuno mi confidò che mi avrebbero arrestato di nuovo, fuggii dal nord del Ci- le, dove vivevo, al centro. Sono stato nascosto per nove mesi in una città che si chiama Los Vilos. Da lì ho fatto domanda a diverse università nordamericane per ottenere un dottorato di ricerca in Filosofia. Fui preso all’Università del Maryland e vi ho arrivai nell’agosto del ’74. Quando mi addottorai nel ’77, fui assunto come professore di Letteratura ispanoamericana presso l’Università dello Iowa. Sono rimasto trent’anni lì. Così ho trascorso tutto il tempo della dittatura in esilio. Nel 1981 fu pubblicato in Cile Mal de amor. Giorni dopo, il libro fu bandito dal regime. È finito per essere l’unico libro di poesia censurato durante il governo di Pinochet».

Cos’è l’«apparizione»?
«Questa espressione ha a che fare con il modo in cui scrivo le mie poesie. A differenza di altri autori, che siedono davanti a una pagina vuota in attesa di ispirazione, non sento e non aspetto nulla. Mi succede quanto segue. Improvvisamente, non importa dove sono, appaiono una o due righe nella mia testa. Sono come lampi verbali. Le chiamo, appunto, “apparizioni”. Non so cosa siano né cosa significhino. Le lascio nella mente per breve o lungo tempo, e un giorno qualsiasi le trascrivo. In quel momento, come una reazione a catena, inizio a comporre il resto della poesia. Le apparizioni non sono necessariamente i primi versi. Possono anche occupare un posto centrale o finale del testo. Ciò non ha nulla a che fare con le muse o con le ispirazioni divine. Le apparizioni non vengono dall’esterno, ma dall’interno della mia testa. Una volta, a Buenos Aires, mi stavano intervistando per un giornale. Il giornalista mi fece una domanda su questo tema. Il termine apparizioni non era ancora emerso. Gli spiegai ciò che ho appena detto. E aggiunsi: “È come quando a qualcuno appare la Vergine. Può apparire o non apparire. Nessuno può costringerla a mostrarsi. Una cosa simile può accadere con i miei versi”. Osservò: “Ah, allora sono come apparizioni religiose”. Risposi: “No, sono apparizioni profane”. Da lì nacque il nome apparizioni».

È vero che la sua scrittura è opposta a quella di Neruda?
«Sì, la mia poesia è del tutto diversa. Per Neruda il poeta è una specie di profeta o portavoce del popolo e del continente latinoamericano. Non mi considero portavoce di niente e di nessuno. Sono solo una persona ordinaria che a volte scrive poesie. Neruda è sulla linea di Walt Whitman. Come lui, parla con un tono solenne ed elevato. Io sono dalla parte del pluralismo verbale. Nei miei testi sono presenti vari registri stilistici: il colloquiale, il letterario, il gergo adolescenziale, il sublime, il sarcastico, lo slang dei testi rock... Inoltre, la mia è una lirica che potrebbe essere definita “fantastica”. Il fantastico non è presente in Neruda. Né il tema apocalittico, che per me è indispensabile. Che la mia opera sia diversa da quella di Neruda non significa che sia meglio. Neruda è senza dubbio un poeta enorme. Ha scritto quotidianamente poesie. Io scrivo poco. Tornando a prima, faccio quello che le apparizioni vogliono. E se non appaiono, non faccio niente».

Le piacciono alcuni poeti italiani, tra cui Petrarca e Montale. La sua visione della donna è influenzata da questi autori?
«I poeti italiani che mi interessano, oltre a Petrarca e Montale, sono Ungaretti e Quasimodo. Dal momento che non parlo italiano, li ho letti in traduzione. Così la mia conoscenza della loro poetica è di seconda mano. Ho scritto alcuni sonetti e ovviamente ho cercato di imparare qualcosa da Petrarca. Quanto agli altri tre, la verità è che non ho ben chiaro quale sia l’immagine della donna che presentano. La donna che compare in Mal de amor non deriva dalla letteratura, ma dalla realtà. Ciò che dice il libro l’ho vissuto con lei personalmente. Anche alcune cose di cui abbiamo parlato appaiono testualmente nelle poesie. E questo mi succede non solo con le liriche d’amore. Benché sembri curioso, anche le mie poesie “fantastiche” sorgono dalla realtà. Senza dubbio il lettore non sa da dove provenga questo o quel testo, ma io lo so. Penso che i critici attribuiscano un’esagerata importanza alla letteratura come fonte di tutto. È una fonte di alcuni aspetti, naturalmente, ma ciò che più mi influenza sono le mie esperienze reali o indirette».

Che cosa rappresentano i fantasmi e i prefantasmi nella sua poesia?
«Un giorno ho cominciato a meditare su una frase che avevo già sentito molte volte, in versioni diverse e che certuni attribuivano a Pascal. È questa: “La vita è un bagliore tra due oscurità”. Ho riflettuto: l’oscurità dopo il bagliore, cioè dopo la vita, è la morte, e l’ho chiamata la seconda oscurità. Poi mi sono chiesto: e la prima oscurità, cioè quella che precede la vita? Cosa ne sappiamo? Fu così che mi occupai dei prefantasmi. Il mio ragionamento era: abbiamo tutti familiarità con le apparizioni che sopraggiungono dalla morte. Li chiamiamo fantasmi. E ho pensato: forse ci visitano anche spettri dalla prima oscurità, cioè prima della gestazione della vita. E li ho chiamati prefantasmi. Da qui vengono tutti quei fantasmi e prefantasmi che circolano nelle mie poesie».

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