Il cuore grande di Julio Gonzalez lo conoscono bene i tifosi del Vicenza che hanno pianto per lui quando all’apice della sua carriera di bomber - argento olimpico ad Atene 2004 e già con la valigia pronta per i Mondiali di Germania 2006 - alla vigilia del Natale del 2005 dovette dire addio a tutti i sogni di gloria. In seguito a un incidente stradale in cui restò miracolosamente vivo, gli venne amputato il braccio sinistro. Per i severissimi parametri Uefa voleva dire carriera finita. Una partita chiusa, a soli 25 anni. Ma non si perse d’animo, sorretto da un fede incrollabile che l’aveva sostenuto nei giorni bui della sala di rianimazione insieme alla compagna di una vita, la moglie Maria Lourdes e ai suoi piccoli, Maria Paz e Fabrizio, ha ripreso la strada di casa, il Paraguay. Con il coraggio del guerriero d’area di rigore che non si arrende mai è riuscito anche a tornare in campo, giocando insieme al fratello Sergio, che fa il terzino, nella squadra che lo aveva lanciato, il Tacuary. Poi la decisione di appendere le scarpe al chiodo. Ma la sua second life è tutt’altro che virtuale: ora gioca al servizio dei bambini poveri e degli orfani di Asunción. Nessuna meraviglia per chi conosce l’uomo Gonzalez, appartenente a quella razza protetta di calciatori che quando erano al top nelle interviste ammoniva: «Si dà troppa importanza all’esteriorità, alle belle macchine e ai vestiti di lusso. Il miglior abito io penso che sia l’anima di un uomo». E quell’anima candida ora ha deciso di sfidare la miseria che domina in molti dei quartieri della capitale paraguayana. «Sono migliaia e aumentano ogni giorno di più quei bimbi che girano scalzi per le strade della città, vestiti al massimo con una canottiera logora e un paio di calzoncini. Ora qui è estate, ci sono quasi 40 gradi tutti i giorni e fa male al cuore vederli con i piedi bruciati dall’asfalto che vagano smarriti, senza un posto dove andare né un riparo dai tanti pericoli...». Sono i bambini della favela di Cateura, la D iscarica dove ogni giorno vengono ammassate montagne di rifiuti in questa metropoli dimenticata del Sudamerica, popolata da oltre 2 milioni di persone. Come topi, bande di ragazzini scalano vette di immondizia alla ricerca di un rottame da rivendere al mercato nero o un pasto quotidiano per sé e per la propria famiglia. «Sono immagini che non possono lasciare indifferenti, specie a uno come me che ha avuto la fortuna di nascere a un chilometro da questo “inferno”. Lì sono cresciuti due miei ex compagni di squadra del Tacuary che mi hanno raccontato la loro infanzia di bambini abbandonati in cui erano costretti a fare qualsiasi cosa per sopravvivere...». Bimbi che vivono in condizioni igieniche al limite. «Ho incontrato creature che non fanno una doccia da mesi, i capelli impastati dallo sporcizia con i vestiti ridotti a brandelli. Sono piccoli angeli che rischiano di finire nelle mani di aguzzini diabolici che li costringono a spacciare droga o a prostituirsi». Così, per evitargli un finale di partita drammatico l’ex bomber ha deciso di fare squadra con due associazioni che operano ad Asunción: l’ “Aldea Sos” (associazione internazionale presente in 120 Paesi) e la “Scuola Calcio Siembra” che si trova proprio nel cuore di Cateura. Un piano di salvataggio sociale e di rieducazione nel quale è entrato anche l’In- ter Campus che puntando sulla presenza di Gonzalez ha aderito al progetto che al momento si occupa di 250 ragazzi tra gli 8 e i 14 anni. «L’Inter ci fornisce tutto il materiale sportivo (maglie, scarpe, tute, palloni) noi ai ragazzi chiediamo prima di tutto di tornare sui banchi di scuola. Altrimenti: niente partite al pomeriggio. Il calcio lo utilizziamo come motivazione per strapparli dalla strada e reinserirli in un contesto sano in cui alla base ci deve essere un corso regolare di studi che gli garantisca poi l’ingresso nel mondo del lavoro». Pane, libri e pallone. È il tridente motivazionale per combattere l’ignoranza, riprendersi in mano la propria vita e inseguire una sfera di cuoio che è il sogno di un futuro meno duro. «Vorrei fare di più, portare altre centinaia di quei bimbi nei nostri centri, ma non è facile... Quello che posso fare ora è andare al campo tre volte alla settimana per allenarli. Loro si divertono e mi ascoltano perché sanno che sono stato un professionista che ce l’ha fatta a sfondare, ma senza mai tralasciare l’istruzione. Non mi costa nulla spendere un po’ del mio tempo per questi ragazzi, anzi è qualcosa che mi arricchisce come uomo e come papà di due bambini che hanno la loro stessa età».