“Veduta di una città ideale”, tempera su tavola anonima di fine ’400 conservata a Baltimora - © The Walters Art Museum, Baltimora
Delio Cantimori (1904 1966) è unanimemente riconosciuto come uno dei maggiori storici italiani del ’900: ciò non toglie che dal punto di vista ideologico e politico cadde nella trappola dei totalitarismi, affascinato prima da quello fascista e poi da quello comunista. La sua figura è stata in passato oggetto di polemica perché il suo impegno diretto nel Pci, che durò dagli ultimi anni del secondo conflitto mondiale fino all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, portò molti a censurare le sue precedenti simpatie verso il regime di Mussolini. Erano gli anni del predominio indiscutibile fra gli intellettuali della cosiddetta egemonia culturale marxista, destinata a cadere solo col crollo del Muro nel 1989. Come bene ha messo in luce lo storico Paolo Simoncelli, discepolo di quell’Armando Saitta che assieme a Renzo De Felice fu uno dei principali allievi di Cantimori, quest’ultimo rimase sempre estraneo alla tradizione cattolica e liberale e si appassionò ai fenomeni più radicali, giungendo persino a dedicare uno studio al nazionalsocialismo fra il 1919 e il 1933 di cui per decenni si sono perse le tracce.
Nel saggio, mai pubblicato, egli indagava le origini socialiste e rivoluzionarie del nazismo ricercando motivi comuni col bolscevismo in opposizione alle democrazie borghesi del tempo. Sulla vicenda proprio Simoncelli ha scritto un volume edito dalle Lettere nel 2008, evidenziando come proprio la disillusione rispetto alle speranze di cambiamento del fascismo e del nazionalsocialismo avrebbero portato Cantimori, anche sotto l’influsso della moglie impegnata in Soccorso Rosso, ad affidarsi al comunismo. Non stupisce perciò che anche i suoi interessi storiografici abbiano riguardato i movimenti ereticali o estremisti. La recente riproposta da parte di Donzelli del suo studio Utopisti e riformatori italiani (a cura di Lucio Biasiori e Francesco Torchiani; pagine 274, euro 28,00) permette di comprendere lo sforzo dello storico all’interno della tradizione marxista, nella ricerca però di figure emblematiche a sé stanti, originali e in un certo senso alternative.
Proprio come aveva fatto nel suo più importante lavoro precedente, Eretici italiani del Cinquecento (1939), in questa opera pubblicata nel 1943 Cantimori sottolinea un dato essenziale che l’establishment comunista, da Togliatti a Zangheri, trascurava completamente, quello religioso. «Gli uomini – scrive Cantimori – che sono stati studiati in queste ricerche non furono “riformatori” solo nel senso di desiderosi di riformare la società e l’istituto della proprietà, ma anche nel senso che auspicarono o tentarono una trasformazione religiosa». Un elemento opportunamente rilevato pure da Adriano Prosperi nella prefazione al volume: anche gli utopisti del Settecento esaminati da Cantimori fanno parte del cosiddetto filone ereticale. Anzi, c’è un filo comune che li lega ai movimenti antisistema esplosi sia nel mondo cattolico che protestante nel periodo della Riforma e della Controriforma. Si tratta del desiderio di una palingenesi totale, sociale e religiosa, in nome di una lotta non solo contro gli abusi e la corruzione degli ecclesiastici ma anche per realizzare gli ideali della giustizia sociale.
Centrale è allora, sia nel Cinquecento che nel Settecento, il ruolo dell’utopia, che come genere letterario notoriamente nasce con l’Umanesimo rinascimentale: il termine – si sa – si deve a Tommaso Moro, che nel 1516 diede alle stampe la sua Utopia. Da allora, il sogno di creare una società perfetta ha affascinato filosofi e politici, portando con sé tutta l’ambivalenza racchiusa nella parola, che ha il significato di “luogo inesistente” e di “luogo felice” allo stesso tempo. Nel libro di Cantimori colpisce ad esempio la prima figura esaminata, l’abate Antonio Tocci, che propose la creazione di una società di “cristiani pari” sul modello delle reducciones dei gesuiti in Paraguay. Elaborata alla fine del ’700, la sua proposta prevedeva una riforma sociale profonda che non poteva non passare attraverso l’abolizione della proprietà privata: è una vera e propria idea di comunismo solidaristico che egli elabora a partire dall’eguaglianza originaria tra gli uomini.
Così anche nei personaggi successivi, come i più noti Babeuf e Buonarroti – che furono anche protagonisti della Rivoluzione francese e ispiratori della Congiura degli Eguali – oltre alla rivoluzione a partire dall’eliminazione delle disuguaglianze sociali emerge un elemento religioso. «Ma religion est l’égalité », sosteneva Filippo Buonarroti, convinto che le Chiese avessero dimenticato una delle prime regole del Vangelo. Babeuf a sua volta voleva creare una “Vandea della plebe”, dando vita a un esperimento di comunismo egualitario in una regione specifica in modo da fornire un modello a tutta la nazione. Tutti sogni infranti e se vogliamo un po’ bizzarri, come li definì Paolo Emilio Taviani criticando Cantimori, che al contrario – nelle sue Meditazioni storiche uscite nel 1960 – la pensava così: «Utopie, si dirà, in questo mondo d’oggi. Ma nella storia si sono viste tante utopie diventar realtà e tanti realismi finire nel nulla». Rileggendo l’opera dello storico romagnolo, al di là dell’estremismo di certe sue posizioni, questo anelito rimane intatto ancor oggi, almeno come tensione ideale, pensando ad esempio alla comunione dei beni praticata dalle prime comunità cristiane.