Una scena di "Processo a Gesù" con la regia di Geppy Gleijeses - Tommaso Le Pera
Cristo torna oggi sul banco degli imputati e ci pone domande sul senso della fede, sulla giustizia, sulla solidarietà, portando lo spettatore, ateo o credente che sia, a interrogare sé stesso e la propria anima. Era il 2 marzo 1955 quando il grande drammaturgo Diego Fabbri, spiazzava la scena italiana con il suo Processo a Gesù: al suo debutto al Piccolo Teatro di Milano, il maestro Orazio Costa guidava attori del calibro di Tino Carraro e Sergio Fantoni in un testo dalla modernità straordinaria. Un gruppo di ebrei scampati alla Shoah, celebra da anni il rito ormai consunto di un processo a Gesù, con attori che di volta in volta interpretano gli apostoli, Pilato, Caifa, Maria, la Maddalena ed altri. Questo processo si è sempre concluso con un verdetto di condanna, ma stavolta gli spettatori non ci stanno, protestano, si indignano e vogliono l’assoluzione. Un capolavoro da troppo tempo lontano dalle scene italiane, ed è per questo che in occasione del 40º anniversario della scomparsa di Diego Fabbri, avvenuta il 14 febbraio del 1980, il regista Geppy Gleijeses con la sua Gitiesse Artisti Riuniti aveva deciso di mettere in scena il capolavoro del drammaturgo di Forlì. Tutto era pronto per il debutto a marzo al Teatro Quirino di Roma, una compagnia di ben 19 attori capitanati da attori di prestigio quali Paolo Bonacelli e Marilù Prati, le musiche di Teho Teardo e la regia di Gleijeses, quando l’emergenza Covid–19 ha bloccato tutto. Ma il regista, che è anche direttore del Teatro Quirino di Roma, non demorde, anzi, ha un sogno: «Vorrei che Processo a Gesù debuttasse in Aula Nervi in Vaticano per il Papa. Quale migliore segno di rinascità spirituale e di ripartenza anche per il teatro?».
Gleijeses, è un progetto che può essere messo in scena a breve in sicurezza?
Il mio sogno è di portare i miei attori dal Papa con uno spettacolo necessario di questi tempi. L’Aula Nervi, inoltre, ha gli spazi che garantiscono la sicurezza del pubblico, ma anche degli attori. Non c’è scenografia, solo il banco della giuria e delle sedie. Ma la questione è di contenuto. Il Vaticano sarebbe il luogo ideale per ripartire con un teatro che affronta proprio il tema della Resurrezione e la necessità del pensiero e della spiritualità. E’ una messa in scena di grande rispetto, con grandi attori e altri molti giovani, circa 7 o 8 che arrivano dalle varie accademie dalla Scuola del Piccolo alla Silvio D’Amico. E’ nostra intenzione anche organizzare un convegno su Processo e Diego Fabbri con Anna Maria Cascetta ed altri studiosi presso l’Università Cattolica.
Come mai ha scelto di portare in scena questo testo di Fabbri che non si vedeva da qualche anno?
Ho in toruné anche altri spettacoli di successo, che ora sono bloccati, come Amadeus di Peter Shaffer con la regia di Konchalovsky, e la commedia Arsenico e vecchi merletti con le grandissime Giulia Lazzarini e Anna Maria Guarnieri, con la mia regia. Ma a Processo a Gesù tengo in modo particolare, la gente ha anche bisogno di teatro che faccia riflettere. EC ra pronto per il debutto, avevamo fatto anche la prova generale. E’ un testo che volevo portare in scena da molto tempo. Avevo già affrontato il Fabbri più brillante con La bugiarda, ma Processo a Gesù mi ha sempre intrigato. Sono fiducioso nella ripartenza, l’ho messo in cartellone al Quirino in autunno. Ma, ripeto, farlo debuttare in Vaticano assumerebbe tutto un altro significato.
Cosa ci racconta?
Da credente, vi ho trovato spunti ancora e sempre attuali. Ed è un testo fortissimo. Paolo Bonacelli, nel ruolo di Elia, il giudice, alla fine delle prove si commuoveva: perché il dramma di Fabbri mette in discussione tutto e ti fa pensare che comunque, ci sia o non ci sia, abbiamo tutti bisogno di Gesù, dell’idea di Dio, della possibilità di un rifugio. E tutto questo, si svolge attraverso un “escamotage” straordinario. Un gruppo di ebrei sopravvissuti all’Olocausto, capitanati da Elia, va in giro per il mondo da anni mettendo in scena un processo che mira a stabilire se Gesù fosse colpevole secondo la legge giudaica, se fosse un sovvertitore dell’ordine costituito, un qualcuno che potesse destabilizzare il mondo in cui viveva. Il processo si conclude sempre con un verdetto di condanna. Ma questa volta è diverso, il pubblico si ribella, e chiede l’assoluzione. La prima, è una vecchina che si occupa delle pulizie del teatro: lei ha perso un figlio ed ora, con la condanna di Gesù, sarebbe come se ne perdesse un altro. E Elia, alla fine, si renderà con- to della necessità di assolvere il Messia.
Come si lega questo testo ai giorni che stiamo vivendo?
Per l’attualità del momento è un testo addirittura scottante. Mi colpisce molto il dialogo fra l’intellettuale e il sacerdote. L’intellettuale chiede: «Non li vede anche lei i segni premonitori della fine... direi addirittura i segni dell’Apocalisse ?». Il sacerdote risponde: «Vedo, ma vedo anche quel che forse lei non vede: che quei fermenti che lei crede siano stati crocifissi con Cristo, si sono invece sparsi, da allora, per la terra e hanno inquietato gli uomini... e li inquietano sempre di più... oggi come mai, direi! Questo io vedo. Vedo perfino che inquietano anche lei...forse lei non se ne accorge, ma nel calore della sua polemica, nell‘ aggressività della sua accusa c’è proprio l’inquietudine per Cristo..».
Come si lega alla sua esperienza personale?
Ora sto scrivendo l’introduzione al libro di Manfredi Editore, con foto di Tommaso Lepera, sulla mia vita, Un ponte verso il sogno. Questo periodo di pandemia è terribile, ma ci fa pensare, e io mi sono radicato nella convinzione che, oggi come oggi, un testo come quello di Diego Fabbri diventa una sorta di Vangelo: parla delle mancanze di tutti noi, che ci siamo dimenticati del prossimo, dell’egoismo che abbiamo avuto. Ti fa fare i conti con te stesso.
Concetti che il Papa ha più volte ribadito in questi lunghi mesi…
Io mi identifico completamente in papa Francesco, ho una vera adorazione per lui. Il bacio al Crocefisso che salvò Roma dalla peste, che momento…ma anche le sue messe da Santa Marta....Io ho amato moltissimo papa Giovanni XXIII e Woytila ed oggi Francesco che è un grande padre. Houellebecq sostiene che saremo un po’ peggiori, io invece penso che ne usciremo tutti un po’ migliori. I momenti che mi hanno segnato di più sono stati vedere la fila di camion militari a Bergamo e la storia del sacerdote che si è tolto la maschera d’ossigeno per donare la vita a un’altra persona: una cosa sovrannaturale.
E il suo rapporto con Dio?
E’ iniziato prestissimo. Ho avuto uno zio monsignore, ho studiato dalla terza elementare al terza liceo dai Gesuiti a Napoli e in particolare mi ha segnato un sacerdote, padre Ciciriello, che nell’ora di religione ci riuniva tutti in circolo. Era un’ora di confessione collettiva, di apertura, ognuno doveva parlare di se, dei propri stati d’animo, delle difficoltà. Mi ha segnato la vita e questo spettacolo lo debbo anche a lui.