Quando don Giussani pronunciò le parole con cui inizia questo libro (Una strana compagnia) era il 1982; io mi trovavo in Spagna, dove mi stavo specializzando negli studi biblici e partecipavo a una piccola realtà interparrocchiale che si dedicava all’educazione cristiana dei giovani. Il primo incontro con lui era avvenuto pochi anni prima, per il tramite di alcune persone di Comunione e Liberazione di Madrid. Nulla faceva prevedere gli sviluppi di un incontro che avrebbe cambiato totalmente la mia vita e quella dei miei amici. Fin dalla prima ora rimanemmo stupiti che il capo di un così importante movimento, già allora noto e diffuso in tante parti del mondo, “sprecasse” il suo tempo dedicando alcuni giorni a una realtà piccola come la nostra. Per di più nessuno di noi parlava italiano, di conseguenza non potevamo leggere i suoi libri, a eccezione dei pochi testi che erano stati tradotti in spagnolo. Subito esercitò su di noi un’attrattiva, con quel suo modo di parlare del cristianesimo come rivolto a tutti, qualunque fosse la circostanza in cui ciascuno si trovava: insomma, quella di don Giussani era una modalità di vivere la fede che ci affascinava. Sempre dialogava con il nostro cuore, mai con il gruppo; la persona era costantemente al centro della sua attenzione. Questo per noi significò sperimentare una preferenza che poco a poco contagiò tutti, fino al punto di decidere di aderire al movimento di Cl, sciogliendo il nostro gruppo che si chiamava Nueva Tierra.
Era il 1985. Da allora ripetevo spesso a don Giussani: «Non finirò mai di ringraziarti perché, facendomi incontrare il movimento, mi hai consentito di fare un cammino umano», cioè di scoprire la natura del cristianesimo e di conoscere veramente me stesso. Oggi posso dire con più consapevolezza che senza la compagnia di don Giussani non sarei arrivato a cogliere la portata della fede nell’esperienza umana. È proprio l’incidenza della fede nella vita dell’uomo, la sua utilità per affrontare la quotidiana fatica del vivere, che si documenta in questo libro che raccoglie interventi e dialoghi a partire dal 1982. In queste pagine emerge soprattutto la passione di don Giussani per la persona, perché faccia un cammino umano nella vita della Chiesa, in particolare dentro quella realtà che prende il nome di «Fraternità di Comunione e Liberazione», che proprio nel febbraio di quell’anno aveva ottenuto il riconoscimento pontificio... Nel maggio del 1982, ai milleottocento radunati a Rimini per i primi Esercizi spirituali della Fraternità, tutti entusiasti del riconoscimento, si rivolge infatti in un modo insolito, confessando il suo disagio attraverso una imprevista premessa: «C’è una lontananza da Cristo. Possibile?».
Nel momento in cui la Santa Sede riconosce CL come un bene per tutta la Chiesa, don Giussani spiazza tutti. Non che non fosse grato di quel gesto, ma l’avvio di quei primi Esercizi spirituali Q- sono trascorsi appena tre mesi dall’atto del Pontificio Consiglio per i Laici - ha il tono di un richiamo. Segno che egli avverte tutta la serietà e gravità del momento, come sentendo di essere davanti a un passo di maturità che la realtà esige. Dice infatti: «Sono come un po’ impacciato e confuso nell’iniziare, perché mi vengono insistentemente alla mente i nomi dei primi miei scolari, che il Signore ha fatto arrivare fin qui; e, dopo di loro, mi vengono alla mente tutti gli altri che ho conosciuto e quelli che sono qui e che non conosco personalmente - con i quali il rapporto è tuttavia molto più significativo che neanche quello con tanta gente che conosco e con cui non cammino, perciò è come se li conoscessi -. Questo pensiero dei primi ragazzi che ho avuto e che adesso sono qui, gloriosi padri e madri di famiglia, con figli oramai più che dodicenni, riusciti nella loro professione, magari “almi” docenti universitari, mi fa realmente tremare. Giovanni Paolo II disse: «Non ci sarà fedeltà [...] se non si troverà nel cuore dell’uomo una domanda, per la quale solo Dio offre risposta, dico meglio, per la quale solo Dio è la risposta». [...] Dai banchi della scuola, su cui ci siamo trovati, fino alla compagnia di oggi [...], è la serietà di questa domanda umana che mi sorprendo questa mattina a sentire in tutta la sua esigenza, in tutta la sua forza, e in tutta la precarietà di consistenza che essa ha nella vita di un uomo. Infatti, anche quando questa domanda è intenzionalmente viva, quanto è dimenticata nel cumulo dei minuti e delle ore della giornata! Insomma, quanto noi andiamo lontani da noi stessi lungo il corso del cammino del nostro tempo!».
Mentre pronuncia queste parole, la sua memoria va agli inizi dell’avventura tra i giovani, nella GS (Gioventù studentesca) della seconda metà degli anni Cinquanta. «Chissà se ci commuoviamo ancora, come ci siamo commossi a Varigotti, leggendo i brani stampati sulle piccole antologie preparate per la tre giorni di Pasqua o per la tre giorni di settembre, chissà se ci commuoviamo ancora come allora!». Diventare uomini maturi non è per Giussani l’esito di uno sforzo titanico, ma la sorpresa di qualcosa che accade: «La maturità non è essere perfetti moralisticamente, come tutti noi penseremmo, la maturità è che questa coscienza diventi quotidiana: «O Cristo, se così posso dire, mio». Perché, pensiamo ai primi, Giovanni e Andrea, e poi Simone e Filippo e Natanaele soprattutto: la maggior parte di loro erano già sposati e che cosa provavano verso quell’uomo? L’ho detto: affezione, non trovo un’altra parola: affezione!». Che cosa può sostenere questo cammino di maturazione della fede della persona? «Che Cristo diventi presenza al nostro cuore, alla radice di tutto ciò che esprime la nostra persona e il nostro essere: io credo che il cambiamento a cui dobbiamo aspirare sia questo. È un cambiamento non delle cose che facciamo, non delle cose che non dobbiamo fare, ma del cuore. La nostra compagnia sarà solo per questo, mirerà solo a questo». Per questo si tratta di «una strana compagnia, in cui uno non può scaricare su di essa nulla, perché tocca a lui».
Don Giussani ci tiene a sgomberare il campo da possibili fraintendimenti sulla natura di questa “strana” compagnia. «La solidarietà tra noi non è lo scopo. Perché? Perché non dura ed è subito piegata, strumentalizzata dai nostri progetti sociali, culturali e politici, o piegata ai progetti della nostra sentimentalità ». Insiste: «Non è la solidarietà il motivo del mettersi insieme (altrimenti finisce; è triste, ma finisce; è malinconico, ma non dura, perché si piega alla strumentalizzazione sentimentale o politica nostra). La solidarietà è l’esito, il primo istintivo corollario del fatto che la mia vita vuole Cristo, così come la tua vita - anche quando tu non te ne accorgi - vuole Cristo. Allora io sono unito a te, ti sento come se fossi mia sorella, mio fratello». La ragione di questo richiamo è dovuta al fatto «che è diventato così facile identificare l’esperienza nostra con un impegno attivistico, organizzativo o culturale, a volte così esclusivistico e autoritariamente definito e condotto»... In queste pagine don Giussani emerge come il grande testimone del sentimento che muoveva Gesù a dare la vita per la gente che incontrava; e ci invita a imitarLo: «È la pietà per gli uomini e per il mondo che ha distrutto il cuore di Cristo nell’agonia, e che san Paolo richiama quando dice: «L’amore dimostratoci da Cristo ci strugge», perché se «uno è morto per tutti», è morto affinché gli uomini «non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro».