Amos Gitai diviene regista per folgorazione, da trauma. Israeliano, militare durante la guerra del Kippur, resta miracolosamente illeso nell’elicottero abbattuto da un missile siriano, il compagno a un metro e mezzo da lui, decapitato. Dall’"errore statistico" a cui si attribuì la sua sopravvivenza decise di trarre profitto, per raccontare e parlare. Col cinema, partendo dal bagaglio tecnico che si era costruito volando in elicottero e filmando con la Super 8. Per questo alterna ai film di fiction veri documentari, e in genere il suo stile mixa immaginazione e documentarismo. Traumatica la nascita del regista, sempre lucidamente drammatico il suo cinema, malvisto in Israele per le sue posizioni non allineate, per la grande libertà intellettuale che fa di Gitai un ebreo errante, prima stabilitosi negli Stati Uniti e poi in Francia, dove a Parigi, come accade sistematicamente ai grandi spiriti liberi dall’inizio del Novecento, si sente a casa propria. Come si sentirono Hemingway, Beckett, Brancusi, Eliade, ad agio nella città dell’arte e dello spirito. Tagliente, secco, asciutto il suo linguaggio, da maestro, incisivo quanto antiretorico, si esprime oltre che in fondamentali documentari, in trilogie, secondo una tradizione epica che Gitai riprende sottilmente e originalmente. Il tema dell’esilio, dell’
ubi consistam, si fonde nel suo cinema con una profonda compassione alimentata dalla curiosità, da quell’occhio cinematografico che segna i registi di razza. Ne parlerà nei prossimi giorni a LetterAltura.
Suo padre, la sua storia, la sua opera. Figlio di un perseguitato e esule, legato da affinità alla sua famiglia e a Israele, il paese in cui nasce, ma anche da differenze. Come vive un artista le affinità e le diversità, con una famiglia, una tradizione, un luogo?«Le faccio un esempio. Mia madre era una donna ebrea del XX secolo, nata a Haifa nel 1909, in Palestina, da genitori venuti dalla Russia. Era una donna impegnata, determinata, che apparteneva alla prima generazione di ebrei socialisti. Ma la tradizione era importante per lei e anche la religione, nei suoi aspetti etici, e mi ha trasmesso questi valori. Nello stesso tempo però, pur avendo ereditato e accettato certe forme di pensiero e comportamento, ci sono momenti in cui si deve prendere distanza. Accettare e comprendere non esclude una presa di coscienza e anche, appunto, di distanza».
Lei coltiva il genere del documentario, non esclusivo, è insomma uno dei registi che alternano e a volte mescolano fiction e appunto documentario, sul modello di autori come Rossellini o Wenders. Quale è per lei la motivazione profonda e istintiva da cui nasce un film?«Penso che per fare un film forte sia necessario amare certi elementi e sentirsi in opposizione ad altri. È necessaria questa tensione tra questi due atteggiamenti, questo agonismo e conflitto di fondo. In
Kippur, ad esempio, da un lato il fascino, l’eccitazione e la tensione causata dal conflitto, e dall’altro, allo stesso tempo, la paura, il freddo, le difficoltà fisiche, le cattive notizie, la solitudine. Bisogna poi impersonare, creare personaggi, partendo da chi amiamo e sentiamo vicino a chi invece odiamo, nel caso specifico i personaggi politici del tempo. I nostri sentimenti devono assumere volti, farsi persona. Penso che questo sia vero per ogni film».
Amore e avversione. Lei parla della nascita di un film come di un evento interiore drammatico, contraddittorio…«Quando penso a
Kadosh, provo una certa attrazione per la natura senza tempo di questo spazio. E Mea Shearim, un quartiere ortodosso di Gerusalemme: penso al tempo che queste persone, i religiosi più tradizionalisti, riservano al rituale: non corrono secondo i ritmi della modernità, non subiscono la pressione della società dei consumi. E questa meditazione concentrata che ogni religione riserva a chi si siede nel suo spazio è l’elemento più attraente che possa offrire. Ma devo anche oppormi con tutte le mie forze a alle ingiustizie che tutto ciò porta con sé, all’umiliazione, l’intimidazione, la solitudine. Questa dimensione esiste anche in
Terra Promessa…. A volte il fare un film contro una certa realtà è una motivazione molto forte. A volte si tratta di questioni etiche, come in
La casa, o del rapporto tra i sessi come in
Terra Promessa o
Kadosh. A volte si tende la mano molto lontano, come in
Desengagement, per cercare di capire le persone da cui siamo molto distanti. La costruzione di una narrazione mi permette di provare a estendere la mia comprensione fino a loro, mettendo in questione anche la brutalità e l’atteggiamento impersonale dello Stato».
«Noi siamo fatti della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni». Prospero, "La tempesta", Shakespeare. Che ruolo gioca il sogno nella nascita di un film?«I film più potenti iniziano, forse, solo dopo la fine della proiezione. Il cinema è un’arte che testimonia di una configurazione piuttosto strana. Spesso, i film vengono proiettati in luoghi piuttosto brutti dove si stia seduti male e in condizioni di proiezione tutt’altro che ideali. Eppure, quando diventa buio e inizia la proiezione, nell’ora e mezzo o nelle due ore che seguono, entriamo in un altro universo di immagini, di suoni, di testi e di dialoghi, di facce e di spettacolo. Quando l’evento è terminato e la luce si riaccende, siamo di nuovo in questo edificio piuttosto brutto e, a differenza della scultura o della pittura o anche di un libro che lasciano dietro di sé una traccia, un oggetto, il film non lascia alcuna traccia concreta dietro di sé. Solo un ricordo, un’impressione. Solo una sensazione nella nostra mente. In un certo senso, un film non ha la singolarità di un oggetto, una scultura, di un dipinto o di un manoscritto».
Il sogno è interruzione del tempo, o incursione di un altro tempo. Anche il film…«Spesso, nei miei film, la scena di apertura è come un luogo in cui ci si siede a meditare sullo spazio che si è appena lasciato, per esempio il negozio dove si è passati o l’imbottigliamento che si è attraversato prima di arrivare, e che permette di comprendere che stiamo entrando in un altro spazio, uno spazio mentale, sonoro e iconografico differente. Si tratta di un atto deliberato di separazione tra l’esperienza che abbiamo appena fatto e quella che ci apprestiamo a vivere. È quasi come se volessi che il film continuasse, che fosse più esplicito o desse la chiave dell’enigma, le risposte alle questioni sollevate, sia che siano visive, estetiche, formali o politiche. La maggior parte dei miei film propongono questa fine aperta, come se rifiutassero qualsiasi lettura definitiva».
L’artista, ogni artista, non è un po’ esule, sempre, e un po’ a casa ovunque? O almeno non sogna di essere così, per la riuscita della sua opera e della sua vita?«Esilio significa anche prendere distanza di prospettiva. Stare troppo vicino a un luogo, a una realtà, è un po’ come stare troppo vicino alle cose: hai un effetto
flou, ma quando ti allontani la prospettiva ti permette di vedere le cose in modo più oggettivo. Prendere distanza è un atto necessario, non di rottura ma di comprensione».