Alex Giorgetti è un pallanuotista della Madonna. Non perché a 28 anni è già un pluri-titolato di questo sport. Ma perché riconoscente a chi qualche anno fa gli ha cambiato la vita. Nato a Budapest la vigilia di Natale del 1987, da padre savonese e mamma ungherese, è cresciuto in Italia e in vasca è sceso quando aveva solo pochi anni. Con la sua squadra di club, la blasonata Pro Recco, è campione d’Europa in carica e non c’è anno che non metta in bacheca almeno un titolo (spiccano sette scudetti e quattro Euroleghe). Dal 2006 è punto fermo del Settebello con il quale ha vinto l’argento olimpico a Londra 2012, l’oro ai Mondiali di Shanghai 2011, argento e bronzo alle World League 2011 e 2012. Ma la Nazionale oggi deve ancora conquistarsi il pass per i Giochi di Rio, mancato ai Mondiali e a un deludente Europeo. Da domani Giorgetti e compagni cercheranno di strapparlo al torneo preolimpico di Trieste.
Possiamo scommettere che l’Italia di pallanuoto a Rio ci sarà? «Assolutamente sì. Questo torneo non avremmo nemmeno dovuto farlo, ci siamo complicati la vita da soli. Bisognerà non sottovalutare gli avversari. Ma penso che dovremmo temere soprattutto noi stessi: giochiamo in casa e non possiamo sbagliare. Non voglio nemmeno pensare a una mancata qualificazione, sarebbe una catastrofe. Ma siamo più che convinti di farcela».
Agli ultimi Europei però ci si aspettava molto di più dalla Nazionale (fuori ai quarti con il Montenegro). «Abbiamo deluso, è vero. Ci dispiace, forse abbiamo preso anche sotto gamba l’impegno. Soprattutto noi senatori dovevamo dare di più nella partita più importante e invece abbiamo avuto un calo fisico più che mentale».
Che cosa manca al Settebello per replicare i fasti degli anni Novanta? «L’autoconvinzione di essere più forti degli altri. Serbia, Ungheria, Montenegro oltre alla grande tradizione e tecnica, hanno un’autostima che supera di gran lunga le altre squadre. Anche se magari non hanno più i talenti di una volta, hanno una fame di vincere che deriva anche dal loro sofferto passato. Però noi negli anni abbiamo dimostrato che si possono battere e anche a livello di club oggi siamo ancora i più forti d’Europa. Grazie alle vittorie del Settebello la pallanuoto in Italia è cresciuta tantissimo: certo, ha scarsa visibilità e meno risorse del calcio. Parliamo pur sempre di uno sport faticoso che richiede resistenza e allenamenti quotidiani di almeno cinque-sei ore al giorno. Però oggi sono tanti i giovani del nostro movimento e sforniamo più talenti di altre nazioni».
Lei quando ha indossato la calottina per la prima volta? «Avrò avuto sei, sette anni. È stata mia madre a trasmettermi questa passione: l’Ungheria è la patria della pallanuoto. Mi portava in piscina da bambino e vedeva che mi piaceva un sacco tirare in porta e far gol. In questi anni mi sono tolto tante soddisfazioni come l’oro ai Mondiali, la vittoria più bella, o l’argento olimpico. E poi gioco nella Pro Recco, la squadra più titolata al mondo, quella in cui tutti vorrebbero giocare e quest’anno puntiamo di nuovo al “triplete”».
Eppure ha attraversato un periodo di profonda crisi qualche anno fa. «Nel 2008 avevo tutto, soldi, ragazze, carriera e divertimento. Poi però incominciò ad andarmi tutto male: la rottura con la fidanzata, il rapporto incrinato con gli amici e con la famiglia, giocavo male e rifiutai persino la Nazionale… Ero sempre insoddisfatto e sull’orlo della depressione. Non capivo cosa mi stesse succedendo e non riuscivo più a riprendermi. Fu allora che un professore durante un volo in Canada mi regalò un’immagine della Madonna. E poi una serie di incontri con persone credenti mi fecero riflettere… Io che mai mi ero interessato né di cristianesimo, né di Chiesa. La svolta ci fu quando dopo il mondiale vinto a Shanghai nel 2011 andai a Medjugorje…».
Che cosa successe lì? «Lì ho scoperto chi sono davvero e che il Signore chiama sempre nel momento opportuno. Sentivo il bisogno di ringraziare la Madonna che ha ascoltato il mio grido quando stavo precipitando nel baratro e mi ha dato la forza di credere in me stesso. Medjugorje è un luogo speciale, un pezzo di terra staccato dal mondo».
Che cosa è cambiato da allora? «Tutto. Sono una persona nuova e ho capito che tutto ha un senso anche la sofferenza. Prima facevo le cose senza un fine. Oggi cerco il Signore ogni giorno attraverso l’amore per gli altri e per i più deboli nella speranza di incontrarlo alla fine di questo cammino. Sono attualmente impegnato in due progetti di volontariato a favore delle famiglie che hanno bimbi con malattie rare o terminali (“Aiutiamo Giorgia” e “Voa Voa Onlus”). Cercare di fare sempre il massimo è anche un modo per testimoniare che la fede è la forza che ti aiuta ad essere non solo un bravo sportivo, ma un uomo migliore. È cambiato anche il rapporto con la mia famiglia, soprattutto con mio fratello gemello».
Per quale motivo? «Prima non eravamo tanto legati. Lui non è stato fortunato come me perché nato con un handicap fisico e forse ha ricevuto meno attenzioni. Decisivo allora è stato anche per la mia conversione l’incontro con una coppia di gemelli pallanuotisti molto credenti. Ho capito che la loro unione e la loro gioia derivava dalla fede. E più leggevo il Vangelo più cambiavo. Di riflesso anche mio fratello si è avvicinato alla fede: e da allora è tutto diverso. E il giorno più bello della mia vita rimane quello durante una vacanza insieme a lui»
Come hanno appreso gli altri della sua conversione? «I miei genitori dai giornali e sono rimasti stupiti. In Nazionale mi rispettano, sanno che cerco di ritagliarmi ogni giorno uno spazio per la preghiera. Un rosario fatto col cuore può davvero fare miracoli. Anche entrare in vasca non è più come prima. “Divertiti e ricordati del Signore”, è il mio motto. Il sacrificio e la fatica hanno un altro sapore. Il mio grande obiettivo rimane però sposarmi e diventare un giorno un bravo papà».