Lisa Ginzburg - Barbara Ledda
Esistono tante maniere diverse di immaginare un lieto fine. Quella scelta da Lisa Ginzburg per Una piuma nascosta (Rizzoli, pagine 224, euro 18,00 in libreria da oggi) potrà apparire sorprendente, ma conserva un’innegabile coerenza rispetto al percorso di un’autrice che da sempre alterna con equilibrio finzione e argomentazione, racconto di sé e confronto con la complessità del mondo. Il nuovo romanzo arriva a due anni di distanza da Cara pace, che nel 2020 entrò nella dozzina del premio Strega. Era, anche quella, una storia di donne, come lo sono state in seguito le indagini biografiche dedicate all’attrice Jeanne Moreau e alla narratrice Clarice Lispector nei libri pubblicati rispettivamente da Giulio Perrone (La luce del rigore, 2021) e rueBallu (Cercavo un’immensità, 2022). Si tratta dei tasselli più recenti di un mosaico che Lisa Ginzburg è intenta a comporre soffermandosi, per esempio, sulla vita di Anita Garibaldi e sulla gestazione del Frankenstein di Mary Shelley, ma anche inoltrandosi in quel singolare labirinto di verosimiglianze che è appunto la trama di un romanzo.
In senso stretto, Una piuma nascosta non è una vicenda solo femminile, per quanto indubbiamente femminile sia il punto di vista consegnato a chi legge. Quello che sappiamo del microcosmo della Quercetana, elegante tenuta alle porte di Firenze, lo sappiamo attraverso lo sguardo di Rosa, che è la figlia dei custodi, ma si sente misteriosamente attratta dalla casa dei padroni. I primi, gli Ossoni, sono un’onesta coppia di proletari, vengono da Terni e lì in campagna hanno trovato una forma di riscatto rispetto alla cupezza alla quale li avrebbe condannati il lavoro in acciaieria. Sempre un po’ impacciati, vanno orgogliosi della loro bambina, che è bravissima a scuola e non disobbedisce mai e fa fare bella figura quando recita le poesie a memoria nel salotto dei proprietari della villa.
Questi ultimi, i Manera, figli invece non ne hanno. Lui, l’avvocato Giovanni, sembrerebbe disposto a rassegnarsi, a differenza della moglie Enrica, che alla fine ha la meglio. Le pratiche in tribunale, la partenza per la Moldavia, il ritorno insieme con Tan, l’orfano che hanno adottato. Di Rosa il nuovo venuto è coetaneo perfetto e così, nel crepuscolo della consapevolezza che sta tra gli undici e i sedici anni, i due sviluppano un’amicizia intessuta di complicità. Perfino il gergo che Tan si confeziona per dare sfogo alla sua ribellione rimane incomprensibile a tutti, tranne che a Rosa, che nella lingua segreta del ragazzo crede di riconoscere il principio di un sentimento più adulto e duraturo.
L’intrattabile Tan, che si ammansisce all’istante quando c’è da imparare un gioco di carte, non è l’unico motivo per cui Rosa ami frequentare la residenza principale. Anche con Enrica, la signora dai modi cortesi e affettuosi, si stabilisce un’intesa la cui intensità non è comparabile a quella del legame con la madre Paola. Come capita a volte nell’adolescenza, Rosa si spinge a fantasticare sull’ipotesi di una realtà a parti invertite, dove lei sarebbe figlia dei Manera e Tan figlio degli Ossoni. In quella sistemazione ciascuno dei due si sentirebbe forse più a suo agio, è vero, ma l’elemento decisivo sarebbe comunque un altro: che Rosa rimanga nella vita di Tan e Tan nella vita di Rosa. Un sogno ingenuo e tenace, che le vicende successive rischiano di cancellare, instaurando fra i due una lontananza che sconfina nell’estraneità.
Fino a quando, ormai trentenni, Tan e Rosa si ritrovano, in un momento che potrebbe essere cruciale per entrambi. Ed è in queste pagine (la cui intonazione sviluppa ma non contraddice il tono più lirico della sezione iniziale) che l’immagine da cui il romanzo prende il titolo viene ad assumere tutta la sua importanza. Per Rosa, e prima ancora per la stessa Lisa Ginzburg, la «piuma nascosta» è emblema dell’attenzione: «Prende a volteggiare nella mente quando meno te lo aspetti, e da lì in poi, il volo di quella piuma non puoi non seguirlo».
A volte porta lontano, in territori che si avrebbe ritegno a esplorare, come accade a Tan, pellegrino in Moldavia sulle tracce dell’infanzia perduta. Altre volte, l’attenzione costringe a inabissarsi nella propria interiorità. Questo è il destino di Rosa che, da medico ormai affermato, riconosce un tratto familiare nel volto di uno dei suoi pazienti: un uomo laborioso e schivo, che le ricorda la ruvida tenerezza del padre Mario. Se l’origine può essere una trappola, accoglierla è l’unico modo per non lasciarsi imprigionare.