La rivista fondata da Maria Corti, “Autografo”, oggi pubblicata da Interlinea e diretta da Maria Antonietta Grignani e Angelo Stella, dedica meritoriamente un numero, il 58, a Natalia Ginzburg. Come di consueto, non manca la sezione “Inediti e rari”, qui affidata a uno studioso ed editore di lunga fedeltà della scrittrice, Domenico Scarpa (che si cimenta anche, in un altro articolo, con la traduzione di Proust del 1946), dal significativo titolo “Breviario di uno scrittore. Scritti, lettere e pareri editoriali (1944-1966)”. Altri documenti d’autore, poi, sono pubblicati in appendice ai singoli saggi, «in modo che il lettore possa verificare dal vivo della voce e degli autocommenti della Ginzburg i temi e gli spunti» in essi «affrontati».
In linea con la vocazione filologica della rivista il contributo di Emmanuela Carbé relativo all’elaborazione di Lessico famigliare. Quanto al restante, si raccolgono poi i saggi d’un convegno del marzo 2017 tenutosi all’Università per stranieri di Siena, tra i quali mi piace citare quelli della figlia Alessandra e della stessa Grignani, dedicato ai rapporti tra narrativa a teatro. Interessante quello di Anna Stella Poli sul Manzoni della Ginzburg, giuocato, però, a ridosso di quelli di Mario Pomilio e Leonardo Sciascia. Di curiosa angolazione l’articolo di Giorgia Benedetta Erriu su “L’incontro letterario tra Natalia Ginzburg, Ivy Compton-Burnett e Harold Pinter”. Istruttivo di sicuro quello sulla Ginzburg e i libri per ragazzi. Mi fermo, però, sull’intervento di Alessandra Ginzburg, che riprende nel titolo – “È difficile parlare di sé” – quello del bel libro curato da Cesare Garboli e Lisa Ginzburg che raccoglie le conversazioni radiofoniche della scrittrice con Marino Sinibaldi. Scrive Alessandra: «Sembra un’affermazione paradossale: pochi scrittori hanno attinto come lei alla propria storia, fino a inaugurare nel 1963 con Lessico famigliare un nuovo genere di romanzo in cui, salvo poche eccezioni, tutti i personaggi venivano chiamati con il nome e il cognome. Tuttavia la sua diffi- coltà a parlare di sé, cioè dei propri sentimenti ed emozioni, è indubbia».
Si tratta, in fondo, della medesima constatazione da cui muove Sandra Petrignani nel suo documentatissimo e avvincente libro pubblicato da Neri Pozza (pagine 464, euro 18,00), La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg: «Ha sempre parlato di sé riuscendo a restare misteriosa». Credo che si debba partire da qui, oltrepassando la mera dimensione psicologica, per sollevare tale asserto a cifra araldica di tutta la sua opera: misteriosamente consegnata, appunto, a quella pudica ma eloquente reticenza, a quel dire meno per dire di più, che ci restituisce una scrittrice il cui egotismo esplicito è declinato però a un grado zero di narcisismo. Si tratta, infatti, di rappresentare sempre una relazione, un nesso – “io e gli altri” ––: poco importa se si tratti della famiglia (i genitori, i mariti – Leone Ginzburg e Gabriele Baldini –, i figli Carlo, Andrea, Alessandra, Susanna), della casa editrice Einaudi (Giulio, Cesare Pavese, Italo Calvino, su tutti), degli amici più in generale (Felice Balbo, il suo maestro di politica, Cesare Garboli, Elsa Morante, un dolorosamente amato Salvatore Quasimodo, tra molti altri). Una scrittrice-mito, insomma, autrice d’un libro altrettanto mitico, e specialissimo, come Lessico famigliare, e sempre in assetto di funzione – se mi si concede la metafora –, entro un sistema di assi cartesiani ogni volta diverso: «il potere editoriale, negato – cito Petrignani – a ogni altra creatura di sesso femminile»; un’attività teatrale inconsueta, eppure di grande successo; un impegno di «opinionista battagliera » sui grandi giornali italiani. Per un libro, questo di Petrignani, scritto al suo singolare modo, cui ci ha da un po’ di tempo abituati in lavori come La scrittrice non abita qui (2002), dedicato al rapporto tra chi scrive e i suoi luoghi; il racconto- affresco scritto dal vero, di un’epoca che era tutt’uno con una precisa idea dell’arte e della vita, Addio a Roma (2012); il romanzo Marguerite (2014) sulla Duras.
Un modo che ha un’origine sempre autobiografica: qui un precoce incontro legato al futuro romanzo d’esordio di Petrignani, Navigazioni di Circe (1987). Poi: la visita dei posti che hanno caratterizzato la vita di Natalia; lo studio attento e appassionato di tutte le opere, utilizzate anche per far parlare la scrittrice con la sua voce; la consultazione di ogni documento possibile anche i più inaccessibili; la ricerca dei testimoni rimasti, con non poche sorprese (struggente la figura di Ludovica Nagel, la destinataria delle lettere di Pavese, Balbo e della stessa Ginzburg, incontrata in Svizzera); e la pietas delle considerazioni a margine – così intrise di malinconia e nostalgia – nei confronti di tutto ciò che la vita è, e il suo inesorabile approdo di cenere. Ma che libro è La corsara? Ecco la domanda doppiamente cruciale: perché vale sia sul versante della definizione di chi l’ha scritto che su quello della delineazione di chi vi è investigata. Una biografia? Anche, ma non solo. Un ritratto con finalità d’interpretazione critica? Di fatto, per molti spunti di lettura, anche questo. Il disegno d’una stagione importante della letteratura italiana novecentesca? Impossibile negarlo. Epperò? Non sfuggirà che Petrignani pone in epigrafe una significativa citazione dal Garboli di Pianura proibita: «Dove va a finire, nei libri che leggiamo, la persona fisica che li ha scritti?». Uno scrittore vero, in effetti, è molto di più della semplice somma dei fatti che costituiscono la sua vita e qualcosa di ulteriore rispetto alla sua opera omnia – come l’inattingibile noumeno kantiano con l’esperibile fenomeno –, non interamente coincidente con essa. Sicché si può dire che questo libro miri a guadagnare quel punto di convergenza, al crocevia di verità e destino, là dove l’ormai fantasmatica persona della Ginzburg possa riprendere corpo, mutata alfine e definitivamente in se stessa.