Il conduttore Massimo Giletti nello studio del talk “Non è l’Arena” in onda su La 7
Un’altra stagione (tv) di grazia quella del “teletribuno” domenicale de La 7 Massimo Giletti che nel suo palinsesto emotivo-professionale mette al primo posto «la capacità di saper ascoltare la coscienze e la possibilità di fare servizio pubblico anche da una rete privata». E poi, solo in fondo, i «freddi numerini» che comunque hanno il loro peso: anche quest’anno premiano Non è l’Arena con un 7% di share che nell’ostico campionato Auditel vale, forse, quanto l’ottavo scudetto di fila della sua amata Juventus. Risultati meritati e ottenuti lottando contro tutti i demoni, compresi quelli dell’etere. Ma è un combattente nato il Massimo nazionalpopolare che di strada ne ha fatta da quando nei primi anni ’90 debuttò alla conduzione di Mattina in famiglia (Rai 2) e già incuriosiva persino il grande Alberto Sordi che un giorno gli disse: «Ah Gilè! Tu funzioni perché sai parlare alle nonne, alla zie e alle mamme». Sorride compiaciuto al ricordo dell’Albertone nazionale e conferma, trent’anni dopo (è entrato in Rai nel 1988, redazione di Mixer alla scuola di Giovanni Minoli) che il suo successo sta proprio «nel fatto che oltre a cercare di parlare arrivando al cuore della gente, ci metto sempre la faccia... Mi agito, anche fisicamente, davanti alla telecamera e partecipo con quello che considero “senso civico” stando sempre dalla parte di chi subisce ingiustizie e spesso, in questo Paese, non ha neppure la possibilità di far sentire la propria voce». Uno dei casi di maggiore ingiustizia denunciato a più riprese nel suo talk è stato quello delle sorelle Napoli: Marianna, Ina e Irene. Per dare voce a queste tre vittime della “mafia dei pascoli” per due anni le telecamere di Non è l’Arena sono scese in Sicilia. A Mezzojuso (Palermo), nel corleonese, assieme alle sorelle Napoli Giletti ha gridato il suo «no» alla mafia che aveva tentato in ogni modo e con ogni forma di violenza di strappare a queste tre donne «indifese e isolate dal resto della comunità » la terra di famiglia.
Una storia Giletti, che a 57 anni l’ha spinto perfino al debutto editoriale con Le dannate (Mondadori. Pagine 180. Euro 18,00), il documentatissimo libro-dossier sulla vicenda.
Questo libro è un atto dovuto in difesa delle sorelle Napoli ma anche di tutte quelle donne che subiscono violenze tutti i giorni solo perché cercano di difendere, con le unghie e con il sangue, semplicemente i loro sacrosanti diritti. Quando al sindaco di Mezzojuso ho chiesto se fosse andato al funerale di Don Cola, il boss della zona, e lui ha risposto «sì», volevo abbandonare il palco e chiudere lì la trasmissione. Poi però ho pensato che avrebbero ancora vinto loro... quelli che non vogliono che questa terra si liberi dalla cultura mafiosa e sono andato avanti fino in fondo, come ogni volta che comincio una battaglia.
Un giornalismo in prima linea il suo, correndo anche qualche rischio di troppo o sbaglio?
Mezzojuso non è stata la prima serata rischiosa e forse non sarà l’ultima, è il prezzo che si paga quando si lavora per difendere la verità. Mi era già successo a Palermo, al quartiere Brancaccio durante la trasmissione in cui commemoravamo don Pino Puglisi non si avvicinava neanche un bambino... Sui tetti erano schierati tiratori scelti per paura di un attentato. Anche a Mezzojuso il clima era molto caldo, c’era tanta polizia attorno alla piazza.
Una piazza singolare quella del paese delle sorelle Napoli, con due chiese, una cattolica e una ortodossa.
Il vescovo di Piana degli Albanesi la settimana dopo la trasmissione in entrambe le chiese ha fatto leggere una lettera in cui invitava la gente di Mezzojuso a restare unita. L’effetto? Mi telefona Ina piangendo e mi dice: «Massimo, non ci posso credere... adesso in paese mi salutano e mi abbracciano». Mi sono commosso...
La fine di un incubo, una vittoria condivisa e sancita anche da tanta solidarietà ricevuta, immagino.
Maurizio Costanzo mi ha scritto parole molto belle. Per me la sua diretta a reti unificate, Mediaset-Rai, un mese dopo l’assassinio di Libero Grassi, quando con Santoro bruciarono le maglie con su scritto «mafia made in Italy», resta una delle vette più alte di “televisione civile”. Quella che spesso fa fatica a comprendere un servizio pubblico in cui ancora si decidono i destini di direttori e conduttori in base ai gruppi di potere del momento. La medaglia più bella comunque resta una dichiarazione dell’ex procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, quando disse: “È inaccettabile che Giletti, l’unico a parlare di mafia alla domenica pomeriggio, vada via dalla Rai”...
Eppure sembra che dalla Rai pur di riaverla sono disposti a farle ponti d’oro e a sacrificare anche la prima serata di Fabio Fazio.
«Lo strappo con la Rai di due anni fa è una ferita ancora aperta per farmi pensare a un ritorno. Ma mai dire mai... stare in Rai sì sa, è come giocare in Serie A. Io dico sempre che lavorare a La 7 mi ha permesso di essere veramente libero. Urbano Cairo, è un editore con il quale è possibile interfacciarsi senza filtri né segreterie, e gli sarò sempre grato perché mi ha concesso una fiducia illimitata quando gli altri me l’avevano tolta. Ci incontreremo il 25 giugno e decideremo...
Quando decideranno invece, come lei va ripetendo da tempo, di togliere i vitalizi ai nostri politici ?
È un gioco al massacro che continuerà fino a quando i nostri politici si faranno le leggi a loro uso e consumo per il mantenimento di un privilegio assurdo. Io ho sbottato contro Mario Capanna lanciando il suo libro in diretta e ho pagato con 20mila euro di multa, ma lo rifarei. Ho attaccato Maurizio Paniz nei giorni scorsi sullo stesso argomento e non mi stancherò mai di denunciare uno scempio come quello dell’assemblea regionale siciliana che ci costa quanto la Casa Bianca. Mi hanno minacciato e querelato anche per questo, ma sia chiaro: la mia Sicilia non è quella di Miccichè e dei politicanti che vivono nella torre d’aavorio, la mia Sicilia è quella di don Cosimo Scordato.
Scusi il gioco di parole ma molti telespettatori non “scordano” e forse non gli perdonano che quest’anno ha promosso Fabrizio Corona inviato sul campo.
Corona ha sbagliato e sta pagando ancora in galera. Ma in trasmissione ha portato due ragazzi tossicodipendenti che adesso si stanno recuperando in comunità grazie al suo, al nostro, intervento. Fabrizio come giornalista ha delle qualità, intuisce la notizia prima degli altri, il suo problema è che è il peggior nemico di se stesso. Deve capire che nella vita per ottenere rispetto ed essere credibili ci vuole più umiltà.
Dote di cui è privo il principe dei “teleurlatori”, l’onorevole Vittorio Sgarbi.
Con Sgarbi ho polemizzato aspramente anche nella puntata sulle notti di Arcore e la morte misteriosa della povera Imane. Vittorio è un uomo di rarissima cultura ma spesso la sua dialettica esasperata finisce per sciupare l’ottima qualità del suo pensiero, e così si rende necessario qualche cartellino rosso.
Gergo da grande esperto di calcio, ma non ha mai pensato di condurre la Domenica sportiva?
È un vecchio progetto che avevamo accarezzato con il mio amico Piero Chiambretti, lui tifoso del Toro e io juventino avevamo in mene un format nuovo nel quale dissacrare un po’ questo calcio che in Italia viene vissuto in maniera patetica quasi fosse un dogma.
I dogmi sono altri e lei Giletti li ha comunicati negli speciali Rai trasmessi per San Padre Pio e con le dirette in Vaticano.
Da credente ancor prima che da uomo di televisione, considero l’incontro con papa Wojtyla il momento più emozionante della mia carriera. Ero un “ragazzotto” e in Rai pensavano fosse una follia farmi condurre la diretta da Loreto. Ma monsignor Boccardo, impose la mia presenza proprio perché ero un giovane tra i giovani che andavano a incontrare Wojtyla. Il Papa alla fine della trasmissione mi fece un gesto con la mano: «Vieni mi disse - Bravo, ritmo, ritmo, grazie... Mi sono divertito!». Da allora, in ogni cosa che faccio cerco sempre di metterci quel ritmo che piaceva tanto a papa Wojtyla.