Emil Orlik, 'Paesaggio con il monte Fuji' (1908)
Quella del Giappone in Europa fu una moda culturale? Sicuramente, ma molto di più in realtà. Con le grandi esposizioni universali a metà Ottocento iniziarono anche le mode esotiche, che non sono soltanto quelle legate alla Cina e al Giappone. Come scrive Francesco Parisi nel saggio che apre il catalogo della mostra “Giapponismo” inaugurata recentemente a Rovigo (edito da Silvana), la diffusione di stilemi e citazioni prese dalle culture orientali ebbe l’effetto tipico delle mode, cioè un superficiale e servile utilizzo di quelle forme per rivitalizzare un universo occidentale in crisi di idee e ispirazione. Una sorta di prelievo o esproprio si potrebbe dire, di qualcosa la cui storia si conosceva ben poco.
Nel 1867, con l’Expo di Parigi, il fenomeno dell’arte cinese e giapponese venne alla ribalta, e alcuni artisti e scrittori francesi fecero a gara per attribuirsi il primato nella scoperta: Bracquemond, Edmond de Goncourt, Monet. Risale a quell’occasione un importante testo che Victor Hugo scrisse per dare a Parigi l’investitura di capitale europea delle culture e della pace, e non ci vollero molti anni perché si vedesse che era solo un bel sogno: la guerra franco-prussiana e poi la repressione della Comune stesero su Parigi un manto rosso fuoco e rosso sangue, i colori della distruzione e del sacrificio di vite umane per corrispondere alle visioni di un ceto politico e di una monarchia incapace di comprendere il vero e il giusto.
Spesso si parla di giapponismo per intendere sostanzialmente una moda estetica, ma la storia delle esposizioni universali dice proprio il contrario: il giapponismo è l’abito fascinoso di qualcosa che ha i suoi fondamenti nella geopolitica, negli scambi commerciali e nel bisogno di stabilire una egemonia dell’Occidente sulle aree nelle quali ha da tempo cercato le sue colonie. Una storia che, come vuole documentare artisticamente la mostra di Rovigo, si stende dal 1860 al 1915 (in realtà, il pensiero giapponese nelle forme artistiche pesa ben più a lungo, e condiziona per esempio il razionalismo architettonico degli anni Venti, come Le Corbusier e Mies van der Rohe ma anche lo stesso Frank Lloyd Wright testimonieranno).
Oggi si distingue fra japonaiseries (una certa fascinazione per l’arte giapponese) e japonisme (una elaborazione di pensiero ispirato alla cultura giapponese), ma si intende così separare ciò che inizialmente e per molto tempo rimase dentro la moda orientalista, che aveva anche altre ispirazioni, per esempio quelle arabe, in una visione romantica di quei mondi (che va alla pari con il Cult of Decadence che sfocia, se vogliamo, nell’esperienza liberty e secessionista e attraversa, in Inghilterra per esempio, il pensiero Art and Crafts e la visione umanista dell’arte come artigianato evoluto: il giapponismo si può trovare, per esempio, nel design di Charles Rennie Mackintosh o nelle raffinate linee delle suppel-lettili e degli oggetti disegnati da Christopher Dresser).
La mostra cerca di testimoniare questo clima europeo, dove in effetti la compagine italiana resta più in disparte e forse è ovvio che sia così in un Paese, il nostro, nel quale la tradizione classica – dall’Antico alle diverse riletture che ne vennero nei secoli moderni – è assai rilevante. Il più giapponese fra gli italiani, forse, è il pittore che con la sua materia grumosa e preinformale meno si sposa al linearismo nipponico: Mario Cavaglieri, di cui viene esposto Vasi giapponesi con pareavento del 1916.
All’opposto è da segnalare la dissolvenza fra le figure in primo piano di due donne in abito scuro a lezione di pattinaggio e lo sfondo popolato di ombre lontanissime e indefinite nel dipinto di Giuseppe De Nittis, che in altre opere paga fin troppo l’ossequio alla moda del tempo. È giapponizzante Vittore Grubicy de Dragon nel trittico Ai laghi o Contralto e due bassi, ma sarebbe far torto alla sua maestria pittorica vedervi una forte valenza concettuale. Così l’intimistico ed elegantissimo Nudino di Casorati ha certamente qualcosa di esotico, cui lo sfondo tapisserie conferisce un fascino lontano e irreale, ma il carattere del pittore è troppo forte per sottolineare una vera dipendenza giapponese (siamo nel 1913 e Casorati sta già dirigendosi altrove).
Splendido il fronte d’ingresso di un tempio giapponese di Antonio Fontanesi, una grande carta a matita e tempera del 1878-79, ma il Fontanesi che ricordiamo è quello paesaggista dai toni chiaroscurali e malinconici, in linea con esperienze francesi come quella di Barbizon. E ancora, lo stravagante kimono di Mariano Fortuny. Non molto di più, a ben vedere, nonostante la buona volontà.
L’affresco d’insieme che si compone a Rovigo è comunque “parsimonioso”: un Monet, un Degas (Donna che si pettina, bellissimo, ma sempre poco pensando che Degas inventando i monotipi realizza qualcosa di molto vicino alla sensibilità giapponese), un disegno di Van Gogh, un Gauguin, un cartone di Braquemond, un Signac, due Maurice Denis, fra cui il bellissimo quadretto di Bretone in barca, due Bonnard, un Ensor, Cineseria, alcuni straordinari vetri e oggetti di Émile Gallé, disegni e litografie di Henri Rivière, il maestro che col suo teatro d’ombre animò il cabaret dello Chat Noir, una litografia di Toulouse-Lautrec e due di Whistler, due studi floreali di Mackintosh, una carta da parati e un notevole vaso in terracotta di Dresser, e così via con centellinate campionature di Kolo Moser, Carl Otto Czeschka, disegni di Klimt (poco giapponizzanti), vari esponenti della Mitteleuropa (due deliziose porcellane di Herman Gradl), e a ritmare il percorso l’opera dei maestri storici giapponesi. Nell’insieme, se si togliessero questi ultimi, non sarebbe però immediatamente chiaro che si tratta di una mostra sull’influenza giapponese sulle arti e il gusto europeo.
Resta da sottolineare la carenza, che non è soltanto di questa mostra ma riguarda in genere il modo di guardare il giapponismo in chi organizza tali rassegne, di una lettura culturale, antropologica e politica del fenomeno, che altrimenti si riduce alla sterile moda estetica.
L’anno zero, se vogliamo, è quello segnato dalla vicenda del commodoro Perry. Matthew Calbraith Perry, ufficiale della marina americana, nel 1854 arrivò al largo delle coste giapponesi e fece pressione sul governo finché non venne stipulata una convenzione che sanciva la collaborazione commerciale fra i due Stati. I giapponesi ancora oggi parlano della sua flotta come quella delle "navi nere", a riprova di quanto non fosse una pressione tanto gradita quella del commodoro. L’altra data fondamentale, che ha risvolti politici ancor più decisivi, è quella della fine dello shogunato, che faceva del Giappone un paese feudale da circa tre secoli: nel 1868, cercando di adeguarsi alla modernità venne sancita una trasformazione politica che portava in primo piano l’imperatore, fino ad allora vissuto quasi in disparte, facendone una sorta di persona divina. Questa svolta durò formalmente fino al 1945, cioè fino alla sconfitta nella Seconda guerra mondiale.
Rovigo, Palazzo Roverella
GIAPPONISMO
Fino al 26 gennaio