Gianfranco Draghi - -
Con Gianfranco Draghi una vegetazione di parole e persone mi avvolse dal 1989. Mi scrisse in una delle ultime email dell'estate 2014: «mi innamorai del tuo Furore delle rose che leggevo in un vialetto sul mare in Maremma e credetti come sempre si crede che l'amicizia non sia un dono futile, ma un incontro raro di pianoforti, di occhiate, e di sensi di se stessi che travalicano la modestia e insieme l'infinità delle nostre parole»: «questa nostra simpatia per il Boiardo ci accomuna ... con la passione di quella cavalleria umanamente tenera». C'erano i paesaggi che dalla pianura padana scendevano all'Adriatico: Rimini, la casa estiva dell'infanzia, «distese di sabbia e piante grasse e il fragore del tempio malatestiano». «C'era una tale bellezza, pacatezza, fervore in quella campagna emiliana, dove ho vissuto i primi anni della mia vita».
Nei paesaggi, grandi e antiche case ospitavano famiglie ampie, le loro possibilità plurime, che un tocco bastava a riaccendere in infinite corrispondenze, come il tempo ritrovato nella memoria risonante di Proust. Eppure non c'era nessuno più "futuro" di lui, così internazionale con il suo federalismo, amico di Bolis e di Spinelli – un padre già ecologista e vegetariano, l'incontro con Croce in piena macchinazione partigiana, la fuga in Svizzera nel 1943, la laurea con Garin su Leon Battista Alberti (ecco il Tempio malatestiano di Rimini, l'Umanesimo, la dimensione di Italia e di Europa); legge per primo Simone Weil, intesse con Cristina Campo la collaborazione nella sua rivista "La posta letteraria dell'Adda e del Ticino", le lettere nella serie che la comune amica Margherita Pieracci Harwell curerà per Adelphi (2011).
Mi scriveva sempre nel 2014: «la crisi si supererà appena questi governi nazionali faranno una vera federazione, cioè uniranno le risorse. Come è successo in Svizzera e come è successo in America. Speriamo che succeda anche qua». Discutendo dell'Italia nobile, civile e straripante di bellezza e di talento, che oggi pare umiliata a morte, aggiungeva: «La situazione italiana purtroppo è la prova di quello che Altiero Spinelli diceva dal 1946 e io e altri giovani amici abbiamo poi ripetuto. Bisogna però insistere e non perdersi d'animo». «Intanto speriamo che questa brutta congiuntura finisca. Un altro problema, secondo me, è la risistemazione globale e mondiale che si deve fare per non distruggere il pianeta. Certo un trenta, quarant'anni li abbiamo ancora disponibili, però il tempo poi fa in fretta a passare».
Dovremmo turbarci, leggendo Dal rogo – il prezioso libro dettato da Draghi nel 2009 dopo l'incendio della casa ed era quasi cieco – che Giancarla Innocenti ha curato per Gaffi (prefazione di Margherita Pieracci Harwell, nota di Cristiano Draghi; pagine 336, euro 18,50). Perché tutta la bellezza che testimonia Draghi – fra l'altro è stato amico di Rosario Assunto, il maggiore studioso del paesaggio – è stata così frantumata? Per tutta la vita Draghi e Giancarla Innocenti hanno recuperato magioni storiche, o comunque degne. Perché lo Stato non ha mai riconosciuto ciò una necessità primaria? Sfogliando Dal rogo, ci immergiamo in un mondo meraviglioso: case commissionate al più grande paesaggista del novecento, Pietro Porcinai, lavoro psicanalitico junghiano a partire da Bernhard con teatro e arte, rappresentati e stampati (e dopo la morte di Bernhard seguì suoi pazienti, tra i quali Federico Fellini, come testimoniò per il mio libro Gli occhi di Fellini), nella più vitale delle scelte di vita fino alla fine, allargando la propria famiglia patriarcale, quella degli amici: qualcosa di mitico.
Ho tra le mani tanti scritti di Draghi, ne cito almeno Inverno (1955) ripubblicato con Carnevale (1958) nel 1990, Infanzia (2003), Cinquant'anni di poesia (2005), Sul mito d'Europa (1973), Secondo la propria degnità – Leon Battista Alberti e Simone Weil (2011). Nella presentazione di Giuseppe Pontiggia a Infanzia, mi colpì l'interpretazione sulle trasmutazioni del Pel di carota, il personaggio di Renard, in cui Draghi si identificava a partire dai paesaggi. Come se la salvezza dipendesse da essi e dalle grandi case – case come pietre angolari, scandite secondo le età, che formano una magica unità in una sorta di celebrazione amorosa, segreto della giovinezza perenne, così ben individuato da Pieracci – il punctum è proprio l'origine: l'infanzia del puer che non permette alla decrepita vecchiaia di distruggere la forza germinativa amorosa.
Goethe, uno dei suoi nutrimenti, gli insegnò a scandirsi attraverso le perle gettate dalle conversazioni, le poesie familiari: semi di argento vivo del presente, del fanciullo eterno (amici come Enrico Gatta le hanno raccolte). Eccone frammenti di una delle ultime, ritrovata da Giancarla Innocenti: «Poi cataloghiamo le cose, diamo loro nomi, tocchiamo le persone, amiamo i nostri bimbi... nasciamo sempre di nuovo ... tutto / è nel segreto della luce che ci circonda. / Realtà o irrealtà, essenza divina o acque senza voce?».