Dobbiamo a La società del rischio di Ulrich Beck l’analisi forse più attendibile delle antinomie della radicalizzazione del principio moderno dell’individualità nella società post- industriale. Che è andata ben oltre la richiesta di un’unità di forza lavoro socialmente ed esistenzialmente mobile, necessitata a sganciarsi, per realizzare 'la propria vita', da ogni strutturale legame/condizionamento sociale. […] Un processo dove «è la singola persona che diventa l’unità di riproduzione del sociale nel mondo della vita». Attraverso le prescrizioni istituzionali e biografiche di questa individualizzazione - fondamentalmente mercatoria, nelle mani cioè del mercato - della società del rischio, «nascono gli strumenti delle possibilità di combinazione biografica [e] nella transizione dalla 'biografia standard alla biografia elettiva', si forma il tipo conflittuale e senza precedenti storici della biografia fai-da-te». Per limitarci al nesso sessualità-filiazione e alle connesse identità di genere, in questo processo, si è passati senza soluzioni di continuità da sex without babies a babies without sex, e infine a sex on demand, con cui si chiude il circolo della dissociazione nell’epoca della modernità riflessiva, tra ruoli sessuali e filiazione, a cui la tradizione, la cultura umana ha da sempre agganciato l’istituto della famiglia come pattern fondativo della società.
C’è in gioco qualcosa che a capire non basta «una revisione dell’immagine della società industriale», perché non investe una sociogenesi aggiornata del moderno, una determinatezza storica tra tante del mutamento sociale, ma la determinazione storica conosciuta in cui fin qui abbiamo vissuto della sociogenesi in generale. È in gioco la smoralizzazione del mondo, per come fin qui si è moralizzato, cioè in ultima istanza fatto, istituitosi nella sociogenesi. In questo processo di smoralizzazione del mondo la società, l’associazione umana, è posta in capo a se stessa, in un generale progetto di sua “denaturalizzazione”, come sua autoposizione assoluta nell’artificio biopolitico sociale fin nel suo nodo comunitario fondativo, sottoposto a un generale progetto di reingegnerizzazione sociale: il nucleo familiare naturale, la coppia eterosessuale generativa, che è insieme lo snodo in cui si legano e si differenziano natura e cultura. In cui la cultura 'si snoda' dalla natura 'annodandosi' come legame sociale.
È stato Lévi-Strauss a indicare nel nucleo generativo della 'famiglia naturale' il pattern basico non solo della riproduzione sociale - l’elemento propriamente generativo, riproduttivo della società -, ma anche della stessa produzione sociale in quanto tale, della stessa produzione della società come passaggio, nei processi di ominazione, dallo 'stato di natura' allo 'stato di cultura', come snodo in cui si legano e differenziano natura e cultura, in cui la cultura si snoda dalla natura annodandosi come legame sociale. A mostrare come nell’orientamento esogamico dell’accoppiamento eterosessuale come modo di assolvere 'all’altro imperio' - dall’accoppiamento, dalla pulsione sessuale - per l’uomo della natura, la filiazione, «riconoscendo e sanzionando l’unione dei sessi e la riproduzione », la società «si impone all’ordine naturale, ma contemporaneamente essa offre all’ordine naturale la sua possibilità», perché «se si vuole che la società continui bisogna correre il rischio» del passaggio «dal fatto naturale della consanguineità al fatto culturale dell’affinità».
La protezione sociale - morale, giuridica, religiosa e/o teologica - da sempre accordata al nesso sessualità/filiazione nella pur storicamente variabile 'regola' matrimoniale che lo governa è un puro conseguimento della ragione naturale, della razionalità osservativa dei fenomeni, di ciò che accade e di come accade. Nel turn-pointdella seconda modernità, dove sotto la potente spinta all’individualizzazione dell’economia postindustriale e al relazionarsi e relativizzarsi in rete di modelli sociali e stili di vita, è questo pattern determinante del nesso procreatività/socialità, la famiglia generativa, a rischio di scomposizione. […] Non c’è bisogno di molto per vedere nelle richieste emancipative degli studi di genere lievitati a teoria del gender una diversa richiesta di emancipazione da quella più che giustificata - politicamente, socialmente, moralmente - relativa alla condizione femminile e alla tutela dell’identità omosessuale. La più generale richiesta di un’emancipazione metapolitica dai vincoli 'naturali' dell’identità di genere; e dell’implicazione eterosessuale, che vi si connette, del nesso sessualità/ filiazione, in cui il vincolo di quella naturalità si è socialmente codificato, codificando la società, permettendone fin qui la genesi; si è fatto codice socialmente genetico. Un’emancipazione dai vincoli naturali tradizionali trascritti negli istituti sociali e giuridici a disposizione, per via biopolitica, dei propri diritti di cittadinanza.
Vincoli “naturali” non più riconosciuti tali perché manipolabili dalla tecnica, che si presuma possa “riprogettare” artificialmente il nesso sociogenetico sessualità/filiazione naturale, individuato fin qui in antropologia strutturale (Lévi- Strauss) nella coppia eterosessuale feconda. In nome dei diritti civili, modellati nel caso di specie su un’idea neutra, che dovrebbe farsi giuridicamente neutrale, del proprio stato di genere, la teoria del gender mira a neutralizzare il dato “naturale” della propria identità di genere, e dell’orientamento sessuale cui è orientato. Anche quando questo dato naturale non sia la differenziazione di genere prevalente, maschio-femmina, quella procreativamente “normale” (che in biologia nient’altro significa che lo standard funzionalmente riproduttivo), ma la stessa “naturalità” dell’identità omosessuale. Sulla differenziazione di genere, sulla propria identità di genere non ha più titolo né la natura (la biologia, che può essere ridecisa dalla tecnica), né tanto meno la società, depotenziata nei suoi istituti valoriali e giuridici assunti come pure convenzioni sociali; ma solo il titolare - la “soggettività”, l’individuo - di diritti di cittadinanza la cui città di appartenenza è in definitiva il proprio desiderio e il 'corpo' che se ne fa interprete. In questa emancipazione dalla natura e dalla società, l’identità di genere è sui iuris, non sottostà cioè ad alcuna potestà, ad alcuna legislazione che non sia quella dell’orientamento del proprio desiderio.
L’autonomia “morale” si fa autonomia del costume sessuale che si vuole indossare. Il punto è che pretendere di contrattualizzare, di fare materia di “contratto sociale” su base individuale, l’originaria communio del noi “naturale” nel suo ambiente, cui nasciamo vincolati, in un illuminismo che veda come deteriore minorità questa dipendenza originaria che ci alimenta (vita e sangue della stessa ragione che si illumina alle radici del noi), significa togliere alle traiettorie dell’individualizzazione, per quanto ellittiche possano essere, il legame gravitazionale che le tiene insieme e le sostiene nel loro orbitare, nella “vita propria”, che per quanto giri su se stessa proprio per girare su se stessa ha bisogno della forza gravitazionale in cui si regge. Perché quando si contratta, proprio perché si mette qualcosa in comune, vuol dire che non si ha, o non si riconosce di avere, più niente in comune; e la comunità originante che si declina nei nessi sociali si fa un mero negozio giuridico, una negoziazione tra la forza e il diritto, e cessa di essere il presupposto ontologico dell’essere sociale: si fa fondamentalmente un’associazione temporanea di scopo, sia pur quella dell’impresa della propria vita. È il problematico scenario della “comunità contrattata” l’ossimoro esistenziale e sociale su cui ci interroga il presente.