Robert Powel nei panni di Gesù nello sceneggiato televisivo di Franco Zeffirelli, 1977.
Gesù rimane per noi uno sconosciuto, e in molti sensi. Quando pensiamo a lui ci assale lo stesso sconcerto dei suoi concittadini che lo videro lasciare, là, davanti agli occhi di tutti, il mestiere di artigiano che esercitava e abbracciare un ministero di insegnamento e guarigione per il quale non lo ritenevano qualificato. Lui non era che uno di loro, in un paesino che non doveva superare i seicento abitati, la maggior parte dei quali occupati nella coltivazione del grano e dell’olivo, altri nella ceramica per uso domestico, altri ancora, come lui stesso e la sua famiglia, dediti alla carpenteria, attività necessaria per la manutenzione delle abitazioni. Non riconoscevano nel loro conterraneo uno in grado di annunciare il Regno di Dio, e ancor meno di ampliarne la comprensione delle sue implicazioni storiche. Ciononostante, resistendo all’opposizione dei più vicini, Gesù diventò un predicatore itinerante che percorreva la Bassa Galilea attorno all’anno 30 del I secolo, annunciando la consolazione divina come compimento delle promesse del Dio d’Israele.
Erano una quindicina i borghi nei quali concentrò la sua itineranza, evitando le possenti città ellenistiche dell’area: Tiberiade e Seforis, per esempio. In base alla testimonianza del più antico dei racconti evangelici, il suo primo gesto pubblico è di natura cultuale, e già in rottura con le consuetudini: un rito d’immersione praticato secondo il programma di un predicatore apocalittico e fuori formato, Giovanni Battista. Facendosi battezzare in quel modo, Gesù condivide l’aspirazione al cambiamento disseminata nelle frange del giudaismo del suo tempo e assume la critica che molti facevano al tempio e all’ordine stabilito di Gerusalemme. Un atteggiamento che, a misura dell’avanzare della sua missione, non farà che sedimentarsi in lui. Non ci vorrà molto per vederlo inaugurare, con tutti i rischi del caso, una rilettura innovatrice delle istituzioni che avevano dato identità messianica a Israele: non solo il tempio, ma anche la terra e la legge. Iniziava qualcosa di inedito. Non stupisce che la domanda che insegue Gesù, dal principio alla fine, sia quella sull’origine dell’autorità con cui egli osava divergere dallo statu quo.
Le sue parole e azioni, seguite non solo da folle di curiosi, ma da un gruppo che ormai lo accompagnerà ovunque vada, richiedono di essere lette come manifestazione della presenza compassionevole di Dio: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore » (Lc 4,18-19). Gesù veniva a dare una nuova prospettiva alla realizzazione della salvezza di Dio, che, secondo lui, agiva già nel presente: nella dignificazione della vita per tutti e nella capacità di riconciliare i distanti (ammalati, indemoniati, peccatori, stranieri…), questo coro di segregati appartenenti alle varie culture inscritte in quel piccolo territorio (la cultura giudaica, quella ellenistica, cananea e romana). Il ritratto che i Vangeli fanno costantemente di Gesù, commensale e amico dei peccatori, indica la sua ferma volontà di varcare le frontiere, che erano morali e di etnia, di genere, cultura o classe. Tutte opzioni che sono più che palesi nelle sue parabole, la forma di comunicazione che egli privilegiava. Queste brevissime narrazioni, tra l’enigmatico e il poetico, mettono in crisi l’immagine ordinaria e convenzionale del mondo, fanno irrompere nuove possibilità in situazioni già date per chiuse, reinventano la vita. Gli approcci storici a Gesù sono necessariamente plurali.
Non è la monodia che ci consente di captarlo, bensì la polifonia, con le sue varianti, i suoi contrasti, i suoi silenzi e singolarità. Non è un caso che il cristianesimo primitivo, invece di ufficializzare un unico Vangelo, abbia optato per l’inserimento nel canone di quattro narrazioni. E, similmente, questo ci viene insistentemente ripetuto da un appassionante cumulo di studi che la contemporaneità va producendo sul Gesù storico. Chi è, insomma, Gesù? Un ebreo marginale? Un profeta escatologico? Un rivoluzionario sociale? Un saggio itinerante, alla maniera di tanti altri che il mondo greco-romano conobbe? È semplicemente un contadino del Mediterraneo? È il Messia? Sappiamo che nessuna immagine isolata raccoglie la verità completa di Gesù. Questa verità, punto d’intersezione tra il divino e l’umano, è chiaramente dentro la storia, ma anche al di là di essa. In ogni caso, quel che importa è accettare la sfida delle rappresentazioni che l’investigazione critica è oggi impegnata a produrre. Vediamo brevemente le tesi di quattro autori di rilievo.
Secondo Géza Vermes, per esempio, Gesù non arrivò ad abbandonare gli schemi mentali e religiosi del giudaismo della sua epoca. Suo obiettivo non era 'rompere' con Israele, né 'sostituirlo' con la creazione di una nuova religione. Gesù fu fondamentalmente un riformatore, in una linea carismatica. Non passò alla resistenza armata come gli zeloti, né fece del suo messianismo una bandiera politica, come altri invece fecero. Era, in radice, un 'uomo di Dio', eterodosso quanto basta ma ancora integrabile entro le grandi linee dell’ortodossia giudaica. Lo statunitense John P. Meier, uno dei maggiori specialisti cattolici in questo dibattito, sostiene, da parte sua, che è impossibile non vedere come Gesù preferisse, alla stabilità del giudaismo ufficiale, il contatto con i gruppi dissidenti di tendenza apocalittica, osando costruire una proposta religiosa che è da considerarsi come alternativa. Gesù dà corpo a una rottura messianica, intestandosi una missione propria che lo avrebbe portato ad annunciare la vicinanza del Regno di Dio a un pubblico sconcertante, in cui i destinatari privilegiati erano i poveri, i malati e i peccatori. Gerd Theissen, professore all’Università di Heidelberg, si concentra su una visione soprattutto sociologica di Gesù e del suo mondo, e lo descrive come un rivoluzionario sociale.
Egli organizzò un movimento che propugnava il cambiamento delle leggi religiose della purezza rituale, favorendo una inedita ricomposizione comunitaria in una linea integratrice. Rispetto ai diversi partiti giudaici, Gesù si proporrà sempre come un outsider, il cui programma di relativizzazione delle frontiere e degli interdetti mette in pericolo il modello sociale vigente. La sua pratica simbolica e la sua dottrina ben rivelano la stupefacente libertà con cui egli opera. Halvor Moxnes, una delle voci della cosiddetta scuola nordica, spinge più in là queste intuizioni, ricordando che Gesù rappresenta un potere che, pur senza essere di natura politica, nondimeno contesta in profondità la configurazione politica del mondo. Tanto i suoi detti su Dio quanto i suoi esorcismi costituivano una chiave controculturale davanti all’ideologia dei poteri. Gesù appare, in tal modo, impegnato nella costruzione di un’alternativa ai modelli (religiosi, politici, parentali) su cui riposava la regolazione sociale. Emerge come visionario radicale, dedito a scuotere e a ridefinire. Come Moxnes spiega, «egli provocava a che si rompessero i limiti e si stabilisse una relazione differente tra identità e luogo». Le ipotesi, come si evince da questo velocissimo campionario, si moltiplicano, si espandono in direzioni diverse, si accumulano, senza che ci permettano di toccare il mistero di Gesù in modo definitivo. Ma tastare un volto è, necessariamente, affrontare la lacuna, il frammento e l’impossibilità di nominare. Accettare di essere alle prese con questa difficoltà è capire che, anche in questo, risiede una verità (verità pasquale!) che riguarda quel che noi andiamo cercando.
(Traduzione di Pier Maria Mazzola)