venerdì 9 giugno 2017
Sul lembo di terra incastonato nel primo lago italiano una “summa” di tutta la nostra storia, da san Francesco a Napoleone
Il profilo dell’Isola di Garda (Le foto sono di Pietro Baldrighi)

Il profilo dell’Isola di Garda (Le foto sono di Pietro Baldrighi)

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Raggiungi San Felice del Benaco, sponda bresciana del Garda. Parcheggi l’auto, cammini in direzione del promontorio di San Fermo – propaggine meridionale del golfo di Salò – e oltrepassi la chiesetta del XV secolo. Poi, quando arrivi là dove la roccia precipita nel lago, sposti le frasche intricate a mo’ di parapetto naturale. È fatta: lo sguardo precipita sulle acque, in quella baia dipinte da un pennello cobalto, e subito riemerge – una volta innalzato di pochi gradi – ossigenandosi nel profilo di un’isola boschiforme: l’occhio la vede lunga e snella, la mente l’immagina naturale prosecuzione della punta da cui sporge. E la storia t’insegna che così davvero fu fino ai terremoti del 245 dopo Cristo, quando le acque divorarono quei suoi duecento metri di esile ponte verso la terraferma. I secoli la chiamarono Isola “dei Frati”, “Lechi”, “Borghese” a seconda di chi la possedette. Oggi, migliaia di visitatori la indicano più semplicemente con il suo primissimo toponimo: Isola “di” Garda (per ricordare la sua antica dipendenza dal centro rivierasco sulla sponda veronese) o al massimo “del” Garda (per sottolineare che si tratta della maggior terra emersa tra le cinque del lago).

Eppure, facendo sintesi della sua essenza, è suggestivo considerare che potrebbe tranquillamente chiamarsi “d’Italia”. Non solo perché le sue fattezze – un chilometro di lunghezza, per una larghezza compresa tra il metro della punta ovest e i centocinquanta del corpo centrale – dall’alto ricordano in miniatura la nostra penisola. E non solo perché i conti Lechi e il duca de Ferrari, nel cuore del Risorgimento, ne fecero un raffinato centro antiasburgico. Ma anche perché millenni di storia la raccontano terra di santi, poeti e navigatori. Una terra coltivata da lungimiranti e alte personalità, quelle stesse di cui oggi Alberta Cavazza e fratelli rilanciano l’impegno e raccolgono i frutti. Aranci e limoni, per esempio. Che già nel XVI secolo lì crescevano insieme a «cedri belli morbidi e sempre fecondi », in compagnia di «altri alberi belli e fruttiferi ch’ivi fino ad or si veggono»: ma quando ce lo racconta Silvan Cattaneo, cinquecentesco scrittore di Salò ( Le dodici giornate, pubblicate postume a Venezia nel 1745), quelle piante esistono da almeno tre secoli. Con tutta probabilità le avevano messe per la prima volta a dimora i frati zenoniani di Verona, nell’878 dopo Cristo beneficati dell’isola dal re dei Franchi orientali. È la cosiddetta “donazione di Carlomanno”, ricordata pure da Federico Odorici nel codice diplomatico a corredo delle Storie bresciane (1856). Ma una leggenda si spinge oltre, e attribuisce le piantumazioni al più illustre tra gli abitanti di quella terra: san Francesco d’Assisi. Luca Wadding (1588-1657) nei suoi Annali dell’Ordine dei frati minori( I, 334, n. VI) documenta che il Poverello «passò... per l’Isola di Garda...» e «qui ricevette un luogo per i suoi discepoli». Ecco il romitorium citato già nel Duecento da san Bonaventura, l’oasi di pace in cui l’assisiate inaugurò una piccola comunità contemplativa. Ed esistono ancor oggi quelle due caverne scavate in lato nord: l’acqua ne accarezza l’apertura, un cunicolo le collega alla cuspide montuosa dell’isola.

Tradizione vuole che nel Trecento le visitò sant’Antonio da Padova, ma è ancora una volta la storia ad associare l’isola al nome di un altro grande francescano: san Bernardino da Siena, che volle inglobare le grotte del patrono in un cenobio «accomodato talmente nel sasso vivo di stanze comodissime ed onorate di claustri e di loggie e di giardini quanto monasterio altro sia in Italia, avendo riguardo alla picciolezza del sito». E attenzione: il testo di Silvan Cattaneo è ancor oggi suffragato da una testimonianza visiva. La custodisce il chiostro francescano di San Giuseppe in Brescia, ed è un affresco firmato nel 1609 da Antonio Gandino (sull’Isola esiste una copia meglio conservata, in cornice). Il «Monastero sopra l’isola di Garda», come recita la didascalia del dipinto che pure ricorda Francesco e Bernardino, è ormai una costruzione strutturata, sede dello studio teologico che nel Cinquecento accolse pure sant’Angela Merici. Una curiosità di questo centro la svela l’Historia della riviera di Salò, pubblicata nel 1599 da Bongianni Grattarolo: il suo fondatore, padre Francesco Lechi detto “Lichetus”, vi fece costruire una struttura «a guisa di mezza luna, dove i frati e gli altri scolari disputavano ». A quei tempi, l’interrogativo dantesco già infiammava gli animi dei letterati benacensi: stava pensando all’Isola, il sommo poeta, quando nel XX canto dell’Inferno cita un luogo «dove ’l Trentino Pastore, E quel di Brescia e ’l Veronese Segnar poria, se fesse quel cammino»? Per alcuni (come Grattarolo), la risposta è affermativa: Dante transitò per il Garda, e all’altare di Santa Margherita potevano indistintamente celebrare i vescovi delle tre diocesi confinanti: Brescia, Verona e Trento. Altri dissentono: “Segnare”, così per esempio la pensa Solitro, non significa impartire la benedizione, ma dettare giurisdizione ecclesiastica. E, lì, quella potestà era riservata al solo presule bresciano.

Poco importa. A far di quella terra certa patria di poeti arrivò il bresciano Cesare Arici, che nel poemetto Sirmione disegnò in filigrana i contorni del compositore Gaetano Donizetti, del soprano Adelaide Malanotte, dell’architetto Rodolfo Vantini. Di tutte quelle personalità illuminate che condivisero con lui l’amicizia del conte Luigi Lechi, dal 1817 al 1837 proprietario di quella terra. E fu proprio Vantini a disegnare il porticciolo dell’isola, dopo che sulla sua storia ecclesiastica lunga mezzo millennio Napoleone aveva ormai scritto la parola fine. Anche lì il vento era cambiato, al sorgere del sentimento antiaustriaco. E «un po’ di finta architettura militare – scrive l’inventore del nuovo imbarcadero in una lettera al conte, citata da Lionello Costanza Fattori (Rodolfo Vantini, Fondazione Ugo da Como, 1963) – mi pare che sia quanto di più ragionevole si addica a questi luoghi».

Ma una cosa restava, e la testimoniano diverse foto: l’approdo con la voga alla veneziana, remi in avanti. Un sistema per scorgere bene acque e fondali verso cui si dirigeva la prua, l’unico in grado di preservare la barca dalle pericolose secche del lago. Sappiamo che nell’alto Medioevo veniva utilizzato per la pesca. Ma sappiamo anche che la donazione di Carlomanno ai frati zenoniani di Verona citava espressamente anche le piscationes, ovvero il diritto di trattenere per sé la pescagione. Così, quando Vantini riformò il porticciolo del conte Lechi, quell’antichissimo modello di navigazione esisteva verosimilmente da almeno un millennio.


Spontaneo chiederselo: cosa rimane, oggi, di tutte queste particolarissime vicende? Le due grotte francescane in lato nord e il parco dei francescani: più volte ricostituito, dimora di plurisecolari olivi ed essenze raccolte in mezzo mondo, ampliato con un giardino all’inglese da quella Charlotte Chetwynd Talbot che nel 1965 sposò Camillo dei conti Cavazza. Ma restano pure alcuni bassorilievi con il trigramma bernardiniano IHS e una campana su incastellatura lignea, presso la chiesetta di Santa Margherita. Senza dimenticare otto secoli di muri o residui murari, cui si aggiungono alcune lapidi romane: quasi tutte trasferite al museo bresciano di Santa Giulia, testimoniano una presenza umana ben precedente l’arrivo dei frati. Ma soprattutto, oggi, rimane il palazzo in lato sud-est: a fine Ottocento intuizione del duca Gaetano de Ferrari, banco di prova dell’architetto Luigi Rovelli. E da inizio Novecento icona della particolarissima essenza che pervade chiunque attracchi in quel piccolo mondo. Un edificio immenso ed elegante, “faro” diurno che indica l’isola alle barche lontane: in stile neogotico veneziano, omaggio alla Repubblica che inventò la voga da cui l’isola e il Garda tutto trassero sostentamento; edificato sul palazzo dei conti Lechi, per decenni dimora di poeti e uomini di cultura; e sorto proprio su quella porzione di terra che fu prima ancora romitorio, convento e studio teologico di religiosi oggi venerati tra i più illustri santi della Chiesa universale.


Così, accarezzandolo con lo sguardo e ripercorrendo nella mente l’“italianità” che ne impregna le fondamenta, senti davvero come «la storia delle gesta di coloro che hanno amato e curato questo luogo è penetrata nel profondo del cuore di questa terra». Lo scrive Alberta Cavazza nel suo L’Isola del Garda, un sogno in mezzo al lago (Acherdo, 2013). Ed è difficile darle torto.

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