Una donna tutta vestita di nero con un cappello a larghe falde e qualche merletto qua e là che decorano un abito d’altri tempi – sembra uscita da un quadro di Caillebotte – si abbandona a una esclamazione repressa a bassa voce: «Wow». Siamo nel padiglione 1, dove la Buchmesse accoglie il Paese ospite: la Francia quest’anno. Che cosa ha visto di così eccitante la signora in nero? Ha adocchiato un torchio da stampa moderno mentre un signore mostra ai curiosi la bellezza d’impressione che si ottiene con quella “bassa tecnologia”. Come dire? Tutto cominciò così, che meraviglia. E infatti qui si può scorrere con l’occhio sulle pareti una tavola sinottica di nomi e date che hanno fatto la storia dell’editoria francese degli ultimi secoli fino a oggi.
Per chi non se ne fosse reso ancora conto è almeno dai tempi di Mitterrand che la Francia è tornata a investire sulla cultura e sul libro come mezzo di “colonizzazione”, come strumento politico. Si tratta sempre di Civilisation come un tempo, ma qui, nella marea della Buchmesse, i francesi sembrano sguazzare come fossero a casa loro. E infatti il padiglione ha come titolo “Francoforte in francese”; chissà se all’Eliseo non abbiano voluto ricordare ai tedeschi che il primo documento scritto dove si parla di Francoforte è una lettera di Carlo Magno re dei Franchi. E sotto la sigla di questo antico popolo si consuma anche la consanguineità storica fra francesi e tedeschi. Che è stata poi, come succede fra fratelli-coltelli, anche motivo di guerre ripetute, per esempio quella che vide Parigi sconfitta nel 1871 dai prussiani. La pace si firmò, all’epoca, proprio a Francoforte, e la Francia perse due costole importanti (quanto meno per il proprio orgoglio), l’Alsazia e la Lorena. E qui, da estimatore della letteratura e dell’arte francese, avevo espresso dentro di me un piccolo desiderio innocente, quello di trovare all’ingresso a fare gli onori di casa una frase, un pensiero, una scheggia di quelle come suo solito fulminanti di Remy de Gourmont.
Era, lo riconosco, un desiderio molto personale, perché di Gourmont, della sua intelligenza e bravura letteraria sono un devoto ammiratore, ma era anche il pensiero che nessuno meglio di lui potesse incarnare l’anima delle lettere e dell’editoria francese e lo spirito di pace fra due popoli che se le sono date anche di santa ragione, ma oggi sono i due pilastri portanti dell’Europa. Il buon Gourmont scoppiata la guerra nel Settanta aveva scritto un saggetto imprudente che fin dal titolo si burlava dello spirito nazionalista francese: Le joujou patriotisme– Il giochetto o il trastullo patriottico. In pratica criticava i patrioti bellicosi che invece di vedere la comunione di valori e di idee che legava i due popoli preferivano la vieta retorica della guerra, e oltretutto malriposta. Finì male, appunto; anche per il povero Gourmont, che perse il posto alla Biblioteca nazionale di Parigi. Certo è, però, che la sua opera è nella filigrana di molta letteratura francese successiva (morì nel 1915) e potrebbe essere davvero eletto a padre letterario dei francesi dell’ultimo secolo. Superata la piccola delusione, mi avventuro nel labirinto del padiglione francese e vedo strani tipi con ombrelli neri aperti e lunghi tubi, anch’essi neri, che uno tende all’orecchio di un altro sussurrandogli non so quali parole. Si recita a soggetto? Sono schierati sul palchetto delle conferenze i giurati del Goncourt per dare notizia dei finalisti. Una signorina tende il suo tubo a uno di essi, Éric-Emmanuel Schmitt, che tutto divertito la ascolta. Finita la declamazione della poesia (o forse era un esercizio di ammirazione) lo scrittore digita qualcosa sul suo telefonino. I francesi sono così, razionali e surreali al tempo stesso, imperiosi e svagati. Non disse forse Marc Fumarolì che i Lumi francesi avevano due mammelle da cui si nutrivano: la raison e la frivolité? Aveva ben chiare le qualità moderne del tipo francese, anche di oggi forse.
Il padiglione francese si avvale del contributo progettuale e materiale dell’Imec (Istitute Mémoires de l’édition contemporaine), in sostanza la banca degli archivi letterari francesi istituita nel 1988 da Olivier Corpet, Jean-Pierre Dauphin e Pascal Fouché, in quanto spesso gli archivi degli editori erano poco accessibili e dunque difficili da studiare. Oggi hanno depositato all’Imec i loro archivi editori come Flammarion, Hachette, Albin Michel, Seuil, La Table Ronde e molti altri, anche piccoli editori. Fouché cura il progetto di questa esposizione che attinge ai materiali degli archivi. Non è certo strano che Émile Zola chiedesse soldi al suo editore, se si leggono le lettere di Céline a Gaston Gallimard è una richiesta continua e senza tante raffinatezze, il quale Céline ha lasciato negli archivi dei suoi editori anche lettere dove lancia improperi contro quelli che e- rano invidiosi di lui; magari sorprenderà, ma non troppo, la difesa di Cocteau del livre de poche (il tascabile): Livre de poche è una specie di pleonasmo. Credo che tutti i libri dovrebbero essere tascabili e camminare assieme al lettore ». Una bella immagine del libro come compagno di viaggio per qualche istante, o molti, della nostra vita.
C’è una lettera di François Mitterrand a Jack Lang, all’epoca ministro della Cultura che pensava a una legge sul libro (quella oggi in vigore) per regolare il mercato e dargli regole di competizione corrette. Mitterrand scrive a Lang e gli dice che in consiglio parlerà del prezzo del libro dicendosi «d’accordo per un progetto di legge rapido sul prezzo » che sarà poi il prezzo unico e fisso. La lettera si ritiene che sia del 1° luglio 1981. La legge scritta dal governo e discussa in Parlamento verrà promulgata il 10 agosto: quaranta giorni. Per il Parlamento italiano non sarebbe un record, piuttosto un miracolo. Fouché rivendica con orgoglio i temi e lo specifico della politica editoriale francese: la difesa del diritto d’autore; la partecipazione alle esposizioni internazionali; i premi letterari; il prezzo fisso del libro. Quattro capisaldi che sono nei pensieri anche dei nostri editori, del loro presidente Levi certamente, che ha rivendicato il lavoro dell’Aie per la tutela dei diritti degli autori. Ci sarebbe da discutere: il diritto d’autore così come applicato oggi è un freno alla cultura, non una sua promozione (forse avvantaggia il potere di certi editori, ma deprime la capacità d’iniziativa di altri). Certo che maggior rigore nella regolamentazione del prezzo, una presenza più incisiva nelle esposizioni internazionali e una migliore gestione dei premi letterari (giudizio di valore e non politiche d’immagine) sarebbe un bene anche per il Belpaese. A chi tocca la prima mossa?
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