sabato 21 giugno 2014
Dal cancro all'artrite, si apre l'era delle supermedicine. L’arrivo sul mercato dei «biosimilari» può permettere a più pazienti di beneficiare di terapie innovative, con risparmi per i bilanci sanitari. (Vito Salinaro)
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Entro il 2018, sette dei primi dieci farmaci al mondo per fatturato saranno biologici. Medicine, cioè, ottenute da un organismo vivente (come batteri e cellule) e dunque molto più complesse da produrre rispetto ai farmaci convenzionali. Si tratta di una svolta epocale nella storia della medicina moderna. Che sta cambiando approccio ed efficacia delle terapie. Come? Prendiamo ad esempio i difetti della crescita o i nanismi. Fino a non molti anni fa, per curarli bisognava prelevare estratti dai cervelli dei cadaveri, in particolare l’ipofisi, e avviare una complessa procedura per isolare l’ormone della crescita. Procedura non sempre possibile – a causa della scarsa disponibilità dei prelievi – e piuttosto rischiosa, perché poteva comportare l’insorgere di patologie avverse, come la cosiddetta malattia della "mucca pazza". Oggi tutto questo è alle spalle. La disponibilità dei biologici ha eliminato i problemi di effetti collaterali e i bambini possono essere curati in sicurezza: è un po’ come se il disturbo non fosse mai nato perché la produzione di ormoni della crescita, grazie ai farmaci, avviene con regolarità.Un altro esempio: quando un paziente è trattato con chemioterapia a causa di un tumore, tende ad essere soggetto a severe anemie, a perdita di globuli rossi e bianchi. Ebbene, i farmaci biologici funzionano anche da supporto alle cure (ma l’auspicio dei ricercatori è che un domani arriveranno a sostituire la stessa chemioterapia), "riparando le perdite", proteggendo l’organismo da probabili infezioni, e rendendo molto più tollerabili i trattamenti più pesanti. Innovazioni che in molti casi possono determinare il successo anche di trapianti per pazienti con malattie ematologiche gravi (linfomi, leucemie). Se è vero però che con i farmaci biologici stanno crescendo le opzioni terapeutiche a fronte di malattie come il cancro, l’artrite, o i disturbi della crescita, è altrettanto vero che questi nuovi preparati, a causa dell’alta tecnologia produttiva, sono molto costosi. Persino Usa, Canada, Europa e Giappone devono centellinare, ad esempio, l’utilizzo dei potenti anticorpi monoclonali (farmaci a bersaglio molecolare) a causa dei prezzi esorbitanti. Figuriamoci i Paesi più poveri.Quello dell’accesso ai farmaci biologici è un problema in crescita ovunque. Qualche esempio? Decine di Paesi europei non li forniscono a pazienti con artrite; e i cittadini statunitensi che curano il cancro con i biologici hanno probabilità raddoppiate di dichiarare bancarotta, a un anno dalla diagnosi, rispetto alla popolazione generale. Sembrerebbe una strada senza uscita: i nuovi farmaci ci sono ma costano troppo. Tuttavia, gran parte dei biologici stanno perdendo i relativi brevetti (della durata di 20 anni): significa che medicine largamente diffuse potranno essere "copiate", e quindi riprodotte da altre aziende (con tutte le certificazioni del caso), ma a prezzi calmierati rispetto ai farmaci originatori. Queste "copie" prendono il nome di "farmaci biosimilari" le cui vendite, tra cinque anni, sfioreranno i 20 miliardi di euro. Si tratta di prodotti che non hanno nulla a che fare con i cosiddetti generici. Il principio attivo dei biosimilari è analogo a quello del medicinale biologico di riferimento già autorizzato (ma il cui brevetto è scaduto), anche se vi sono differenze nei processi di produzione.Ora, la domanda è: quanto sono sicuri i biosimilari? E se lo sono, cosa aspettiamo ad usarli, visti i risparmi? Partiamo dalla sicurezza. In Europa l’organismo che attesta se un farmaco è sicuro e vendibile è l’European medical Agency (Ema), che, per primo – seguito a ruota dagli analoghi enti di Usa, Canada e Giappone – ha approvato i tre biosimilari oggi in commercio (insuline, ormone della crescita, eritropoietine e fattori di crescita granulocitari) rispettivamente nel 2006, nel 2007 e nel 2010, rilasciando l’Autorizzazione all’immissione in commercio (Aic), vincolante per gli Stati, in cui si attesta che il farmaco biosimilare è «efficace, sicuro e quindi commerciabile». L’Associazione italiana di oncologia medica rileva che «l’utilizzo dei biosimilari, tenendo conto del numero di farmaci antineoplastici ad alto costo il cui brevetto scadrà nei prossimi anni, potrebbe permettere una razionalizzazione della spesa sanitaria con la disponibilità di risorse economiche per i nuovi farmaci innovativi». Dunque, sembrerebbe ingiustificato l’ancora timido approccio ai biosimilari che si registra in molte regioni italiane (si va dall’8% di quota mercato per la Somatropina fino al 38% per il Filgrastim).Per Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche "Mario Negri" di Milano, «dopo il pronunciamento dell’Ema non può esserci alcun dubbio sull’utilizzo dei prodotti». Certo, aggiunge, «rispetto ai farmaci generici la differenza è sostanziale. Perché i biologici sono molto più complessi ed è difficile stabilirne l’equivalenza. Ecco perché c’è e ci deve essere una accresciuta attenzione soprattutto al dato di sperimentazione clinica, che è molto delicato. E agli interessi economici in ballo. Ma tutto questo non può inficiare l’ottenuta autorizzazione da enti come l’Ema o da quelli americano e giapponese, che concedono il via libera solo dopo iter lunghi e severi». Se ancora esiste una certa "prudenza" in molti medici, «è perché il complicato sistema di produzione non garantisce una purezza del 100%, come invece si può riscontrare nei generici; possono insomma persistere piccole differenze e impurità»; è il parere di Flavia Valtorta, capo dell’Unità di neuropsicofarmacologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano e docente di farmacologia nell’Università Vita-Salute del capoluogo lombardo. Che aggiunge: «Il rischio di non ottenere uguali efficacia e sicurezza è già marginale quando il prodotto supera i controlli; ma viene ulteriormente arginato se, dopo l’approvazione, si applica una seria farmacovigilanza.L'era dei biologici sta già cambiando la medicina ma potremo avere contezza della portata di questa svolta ancor più nei prossimi anni». Su questi farmaci gli affari sono destinati a salire. Non a caso ci stanno investendo i colossi. Nei biosimilari la voce grossa la fa la tedesca Sandoz (gruppo Novartis) che a Kundl, in Austria, tra le montagne del Tirolo, ha dapprima (1946) trasformato un birrificio dell’800 in una fabbrica per la produzione di penicillina (oggi è l’unica nell’emisfero occidentale), quindi nella maggiore catena integrata di antibiotici dell’Occidente, aggiungendovi col tempo anche un modernissimo impianto per la biotecnologia moderna. Sandoz detiene il 54% del mercato mondiale dei biosimilari, la statunitense Hospira il 17% e l’israeliana Teva il 16%. I risparmi per questi farmaci vanno dal 15 al 40%. Ma in Italia solo poche regioni, dopo l’ok dell’Aifa, si sono dotate di linee guida ad hoc. Alcune lo hanno fatto perché virtuose (Trentino Alto Adige, Piemonte-Valle d’Aosta e Toscana), altre perché costrette dai passivi esorbitanti (Campania e Sicilia), altre ancora un po’ per l’una un po’ per l’altra ragione (Puglia), mentre c’è chi (Lazio) non si è posto il problema.Chi si dota di linee guida, tuttavia, dimentica spesso di introdurre strumenti di controllo per verificare che le stesse vengano rispettate. Il tedesco Iges Institut ha calcolato che l’introduzione su vasta scala dei soli tre biosimilari disponibili, porterebbe all’Italia un risparmio di 3,2 miliardi fino al 2020. Insomma, se si crede nei biosimilari, occorrerebbe, oggi, disegnare una strategia condivisa. Perché nei prossimi 5 anni la scadenza di molti brevetti di anticorpi monoclonali porterà alla disponibilità, tra l’altro, di nuove molecole biosimilari anticancro e per patologie autoimmuni, due delle aree terapeutiche a più elevato costo per il nostro anemico, è il caso di dirlo, Sistema sanitario nazionale.
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