Monumentale scatola nera di una vita e di una cultura, quella Yanomami, il popolo amazzonico che vive nella foresta tropicale ai confini tra Brasile e Venezuela, La caduta del cielo (Nottetempo, pagine 1070, euro 35), memoriale auto-etnografico di Davi Kopenawa raccolto dall’antropologo Bruce Albert, è una narrazione ininterrotta e potentissima, che conserva la naturalità espressiva della lingua orale. Davi – che il 6 settembre incontrerà il pubblico al FestivalLetteratura di Mantova in un incontro dal titolo Combatto perché sono vivo – racconta la sua storia, che è anche quella del suo popolo, 21600 individui suddivisi in 260 gruppi locali, rivela in tre parti distinte le diverse stagioni della sua vita e il pensiero cosmo-ecologico legato ai miti della creazione e al rapporto ancestrale con gli spiriti della foresta, gli xapiri, le immagini degli antenati yarori, «che danzavano gioiosi», l’esperienza con la polvere yàkoana, l’iniziazione allo sciamanesimo. La sua casa si trova a Watoriki, la montagna del vento, dove vivono gli spiriti anziani: «spiriti ara, spiriti cacicco, spiriti galletto di roccia, spiriti scimmia ragno e cebo dalla fronte bianca».
La prima parte del libro (“Divenire altro'”) è una storia di formazione nel mondo incantato e magico della foresta. La scrittura è sempre lirica, ispirata, intrisa di un misticismo animistico, così come anche nella seconda (“Il fumo del metallo”), dove si assiste all’arrivo dell’uomo Bianco, una sorta di invasione anche di uno spazio simbolico. Davi vede per la prima volta bambino gli uomini della Commissione delle Frontiere e si terrorizza, «spaventato dal rimbombo dei loro motori, dalle esplosioni dei loro fucili». Capisce che vogliono disegnare i confini per impossessarsene, quelli dell’Inspetoria invece desiderano le loro donne.
La sua storia incrocia sempre quella del suo popolo in ciò che può considerarsi un romanzo antropologico dove biografia individuale e quella collettiva coincidono. Quando va a lavorare con gli uomini della Funai (Fondazione nazionale dell’Indio), taglia per loro la legna, accende il fuoco, cuoce la selvaggina, e impara il portoghese, s’impossessa della lingua dei bianchi, viaggia e raggiunge le città. Lavora come interprete all’inizio degli anni 70, mentre iniziano i lavori della Perimetral Norte, il tracciato che collega Manaus a Boa Vista.
La costruzione della strada portò epidemie e morte, e nel decennio successivo favorì l’arrivo di 40mila garimpeiros (cercatori d’oro), che lui chiama «i mangiatori di terra», i quali sparavano agli indigeni, distruggevano i villaggi, portando malattie e decimando un quinto della popolazione.
È in quel momento che Davi Kopenawa diventa un leader: «Mi sono messo a viaggiare per raccontare a tutti i Bianchi come i garimpeiros trasformavano i nostri fiumi in pantani e insozzavano la foresta (...) Il mio pensiero si è rafforzato e le mie parole sono aumentate. Così ho imparato a difendere la mia foresta». La forza di combattere (guidato dagli spiriti delle vespe kopena, da qui il nome Kopenawa) la trova strada facendo, prende la parola nei villaggi, da Manaus va a Brasilia, San Paolo, fino ad arrivare alla sede delle Nazioni Unite di Ginevra e New York (vicende raccontate nella terza parte, “La caduta del cielo”).
Dalle lotte del suo popolo e una campagna internazionale partita da dalla Commissione Pro-Yanomami e organizzata da Survival International, la Terra Indigena Yanomami ha avuto nel 1992 il riconoscimento legale dal Governo brasiliano e oggi si estende per 296.650 km, così dopo la morte del suo amico Chico Mendez, Davi oggi è la massima autorità politica e religiosa dei popoli indigeni, una sorta di Dalai Lama amazzonico, e in questi anni ha sviluppato una riflessione cosmoecologica legata al cambiamento climatico, contro le grandi potenze predatorie del capitalismo occidentale, da lui definite “Popolo della merce”: «Hanno già fin troppe merci. Nonostante questo, continuano a scavare la terra senza sosta, come armadilli giganti».
L’ho incontrato due anni fa a Boa Vista, mentre ero in Brasile proprio per un reportage sullo stato della Foresta Amazzonica, e insieme siamo andati con fratel Carlo Zaquini, un indigenista italiano suo amico arrivato qui il primo maggio del 1965, alla sede della Funai a chiedere il permesso per entrare nella Terra Indigena Yanomami a Catrimani, dove si trova la Missione della Consolata. Era un periodo drammatico per il suo popolo, i cercatori d’oro arrivavano da tutte le parti, da Belem, da Manaus, da tutto il Brasile: «È pieno di zattere, anche nei ruscelli, negli affluenti c’è distruzione, e hanno l’appoggio di politici e ricchi impresari di Boa Vista», mi aveva detto angosciato. Era preoccupato anche per i Moxihatetema, che definì «esseri umani che non vogliono avere contatto con gli altri», che vivevano nel loro piccolo paradiso senza tempo.
Mi disse anche: «La nostra parola d’ordine è proteggere la natura, il vento, le montagne, la foresta, gli animali, ed è questo che vi vogliamo insegnare. I capi del mondo ricco e industrializzato pensano di essere i padroni, ma la vera conoscenza è degli Shaori. Sono loro il primo vero mondo. E se la loro conoscenza va persa, allora anche il popolo bianco morirà. Sarà la fine del mondo. È questo che vogliamo evitare». Come già scriveva Claude Lévi-Strauss nel 1993 «lo sciamano yanomami non separa la sorte del suo popolo da quella del resto dell’umanità». Infatti, il messaggio universale di Davi Kopenawa e di questo libro bellissimo, la visione del suo sguardo mitologico, uno sguardo “altro” rispetto al nostro, è un grido mite che va oltre la Foresta amazzonica, riguarda la sopravvivenza di tutti: «La foresta è viva. Può morire solo se i bianchi si ostinano a distruggerla. Se ci riescono, i fiumi scompariranno sotto la terra, il suolo diventerà friabile, gli alberi riseccheranno e le pietre si spaccheranno per il calore. La terra inaridita diventerà vuota e silenziosa. (...) Allora moriremo gli uni contro gli altri e così anche i bianchi. Tutti gli sciamani periranno. Quindi, se nessuno di loro sopravvive per trattenerlo, il cielo crollerà».