martedì 17 settembre 2024
L’ex campione del Milan raccoglie in un libro la sua esperienza di responsabile dei vivai per un pallone libero dalle aspettative ossessive dei dirigenti e dalle pressioni dei genitori
Filippo Galli, ex giocatore del Milan e dirigente sportivo

Filippo Galli, ex giocatore del Milan e dirigente sportivo - ANSA

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Filippo Galli, la musichetta della Champions l’ha sentita suonare tante volte nella sua vita da centrale difensivo del grande Milan di Arrigo Sacchi e poi di Fabio Capello. Il ragazzino, classe 1963, col caschetto calato in fronte, talento della Cosov, l’oratorio di Villasanta (Monza) e studente all’Istituto Tecnico dei Salesiani di Sesto San Giovanni, nel 1980 quelli del Milan decisero di prenderlo dopo un torneo giocato a Solbiate Arno con la “Primavera” rossonera e in rossonero è diventato una colonna. Dal 1983 al ’96, 325 battaglie in campo con il Milan, al fianco di totem difensivi come Franco Baresi, Paolo Maldini, Mauro Tassotti e Billy Costacurta, conquistando 5 scudetti, 3 Champions e 2 titoli mondiali per club. Appesi gli scarpini al chiodo, a 40 anni (alla Pro Sesto) ha scoperto la sua vera vocazione: occuparsi dei giovani. E così, dal 2009 al 2018 è stato responsabile del Settore Giovanile del Milan e poi ha lavorato per la Figc nella formazione dei responsabili di settore giovanile. Ultimo incarico al Parma, prima della pausa di riflessione da pedagogista e educatore prestato al calcio. Ora le sue “filosofie” sono finite in un libro che dovrebbe leggere ogni allenatore e dirigente per comprendere il vero lavoro culturale che andrebbe fatto per crescere gli uomini prima che i calciatori di domani. Si intitola Il mio calcio eretico (Piemme) questo diario di bordocampo in cui senza salire in cattedra un campione come Filippo Galli che è passato “dai trionfi con il Milan al lavoro con i giovani” (recita il sottotitolo) mette al servizio di tutti il proprio vissuto, in campo e fuori.

Il “Barone” Nils Liedholm, che ebbe al Milan, ripeteva ai giocatori: “Ordinato in campo, ordinato fuori dal campo”. Quello è diventato anche il mantra di Filippo Galli?

No. Nel mio lavoro con i giovani ho sempre cercato di evitare slogan o frasi ad effetto. Agli adulti, a cui mi rivolgo ora nella mia attività di formatore, invece ricordo sempre che devono saper osservare e ascoltare i ragazzi. Però sul mio blog, “La complessità del calcio” un piccolo mantra l’ho pubblicato in homepage e dice: “Non si vive celebrando vittorie, ma superando sconfitte”, parola del grande tecnico argentino Marcelo Bielsa.

I millennials fanno fatica a sintonizzarsi su questa filosofia dell’accettazione della sconfitta e vivono di ansie, vittime delle loro fragilità. Accade anche nel calcio?

Purtroppo sì, ed è inevitabile. Tutta la nostra società, dalla scuola allo sport, spinge continuamente verso la competizione esasperata. Il problema è far capire che anche in un contesto competitivo occorre saper vincere in un certo modo e non a tutti i costi. Vincere nel calcio poi è una questione di squadra, perciò al ragazzo devi insegnare che si ha un bisogno vitale dell’aiuto dell’altro. Sempre Bielsa insegna che la squadra più forte è quella che si prende cura e riesce a difendere l’anello più debole.

Nel suo libro c’è un capitolo che indica la “via del ritorno”: “Giocare in strada e giocare di squadra, per costruire un gruppo che faccia calcio propositivo”.

Oggi manca la strada e anche il vecchio cortile dell’oratorio dove si è formata la mia generazione. Noi sappiamo bene che è da lì che dovremmo ripartire, ma poi nelle scuole calcio non proviamo mai a replicare quei modelli e proponiamo una metodologia lontana dalla cultura della strada e dell’oratorio. Subentrano tanti fattori negativi che vanno dalla mania di controllo degli allenatori, le aspettative ossessive dei dirigenti e le pressioni dei genitori che troppo spesso vedono nel figlio, potenziale campione, una sorta di ascensore sociale. E allora ecco che il calcio di strada e la dimensione oratoriale rischia di diventare un’utopia.

L’utopia che si scontra con la realtà concreta di un calcio in cui i genitori ormai pagano per far giocare i loro figli.

È assurdo. Pagare per giocare è un insulto alla meritocrazia. Nelle scuole calcio si paga per far allenare il proprio figlio che magari non giocherà mai una partita. C’è bisogno di una forte e nuova sinergia tra società, allenatori e le famiglie che devono puntare al massimo risultato formativo del ragazzo prima che a quello del campo.

Lei scrive: “Intuire il potenziale e la possibile traiettoria di sviluppo di un ragazzino è la cosa più difficile”. Ma come si riconosce il talento?

Il tema del talento è complesso e io parlerei del riconoscimento dei “talenti”, perché possono essere diversi e non sempre è quello che in campo fa dei gesti tecnici incredibili e spettacolari. Talento è anche colui che fa giocate semplici ed è focalizzato sul compito e non smette mai di migliorarsi e di apprendere nuove conoscenze. Io mi riconosco in questo secondo tipo di talento, di un ragazzo che è arrivato al calcio di vertice grazie alla grande capacità di applicazione. Tanti talenti si sono persi perché crescendo non sono stati capaci di migliorarsi e spesso non solo per colpa loro ma perché non sono stati adeguatamente supportati dalla società, dall’allenatore, dal contesto famigliare. Nel calcio ci sono tante variabili, in campo e fuori, che possono determinare il cammino del talento in una direzione o nell’altra.

Chi è stato il primo talento che ha incontrato da responsabile del settore giovanile del Milan?

Simone Verdi. Quando lo vidi al torneo di Villarreal chiesi subito al dottor Adriano Galliani di metterlo sotto contratto. Ecco, Simone era il talento spettacolare che giocava con naturalezza di destro e sinistro e incantava tutti. L’altro tipo di talento più affine a me è Matteo Darmian, un ragazzo che da quando era il capitano della Primavera del Milan e ha debuttato in prima squadra a 17 anni non ha mai smesso di migliorarsi. Perciò non mi stupisce che a 35 anni sia ancora lì da protagonista anche dell’ultimo scudetto dell’Inter.

Nel suo libro sostiene che “dai Primi calci all’Under 14 qualcosa si sta muovendo, ma rimane una certa resistenza al cambiamento”. Conferma?

Purtroppo confermo che anche in quelle categorie di base orami facciamo fatica a introdurre nuove idee di apprendimento. Che poi non sono neppure nuove, ma semplicemente idee rimaste nei libri e non c’è la volontà di andarsele a rileggere per poi sperimentarle. Il mio calcio è “eretico” perché crede ancora fermamente che la competenza non è mai cristallizzata, ma va continuamente aggiornata seguendo i criteri della conoscenza, la quale va supportata dall’esperienza. E in questo noi siamo ancora indietro.

Eppure le nostre Nazionali giovanili sono apprezzate e vincenti.

Al di là dei risultati, Spagna e Inghilterra nel calcio giovanile restano all’avanguardia e nei loro sistemi la differenza la fa un fattore fondamentale: il coraggio. Nei tornei inglesi e spagnoli non esiste il vincolo assurdo del dato anagrafico che invece imprigiona il calcio italiano. Se uno è bravo, nella Premier e nella Liga lo lanciano con la libertà che qui da noi un allenatore spesso non ha, perché è ostaggio delle troppe pressioni e non è sostenuto dalla proprietà o dal management. Quando Sinisa Mihajlovic al Milan fece debuttare Gigio Donnarumma a 16 anni e 8 mesi pensavano che fosse un folle… Ma noi sapevamo che stavamo lanciando un campione dal futuro certo e lo facemmo con quel coraggio che in Serie A non si vede quasi mai.

Quanti potenziali campioni come il marocchino - con passaporto italiano- Hachim Mastour, non ha visto andare incontro a un futuro certo come quello di Donnarumma?

Per fortuna non molti. Sul cammino professionale di Mastour hanno pesato anche le responsabilità di noi adulti che non lo abbiamo sufficientemente aiutato. Aveva 15 anni quando sono iniziate le forzature dall’alto per renderlo protagonista. Poi le decisioni del suo entourage hanno fatto il resto spingendo la sua traiettoria nella direzione attuale (a 26 anni gioca in Marocco, nel ‘Union Touarga), e di questo Mastour mi ha dato ragione nell’intervista che ha rilasciato di recente. Ma il più grande talento inespresso rimane Mario Balotelli. E anche nel suo caso non mi sento di condannarlo, l’ infanzia difficile non lo ha aiutato nel percorso di crescita e certi cattivi pensieri immagino che siano riaffiorati nella mente di Mario. Per Balotelli parlano i suoi comportamenti, non lo giustifico, ma lo comprendo.

La comprensione dall’ alto di chi è stato protagonista del “Milan degli Invincibili”, la squadra italiana che rimane un modello insuperato.

Mentre giocavamo e vincevamo tanto, confesso che non eravamo consapevoli di essere parte di un’autentica rivoluzione calcistica, forse davvero irripetibile. Merito del presidente Silvio Berlusconi, del dottor Galliani e di Ariedo Braida che, con coraggio appunto, diedero piena libertà alle idee innovative di Arrigo Sacchi. Merito poi va dato a Fabio Capello che non stravolse l’impianto sacchiano, ma semplicemente apportò, da grande giocatore quale era stato, delle piccole modifiche sostanziali, tipo qualche obbligo in meno per gli attaccanti. E poi dell’era Capello mi piace ricordare il lavoro prezioso svolto da un grande tecnico come il suo vice Italo Galbiati.

Ai vecchi milanisti invece piace ricordare quella finale di Champions del 1994 ad Atene: Milan-Barcellona 4-0. Una lezione anche alla superbia del grande Johan Cruyff.

L’hanno definita la “partita perfetta” e credo che quella rimanga davvero una prova tecnica e tattica magistrale. La presunzione nel calcio, come nella vita, a gioco lungo è sicuramente un limite, però vorrei sfatare una volta per tutte la leggenda secondo cui le esternazioni alla vigilia di Cruyff siano state fondamentali per caricarci a mille e poter infliggere quella lezione al Barcellona. Il Milan di Capello, come quello di Sacchi, le motivazioni ne aveva sempre da vendere e contro qualsiasi avversario. E questa era la più grande forza dei suoi campioni.

Chi è stato il campione più grande con cui ha giocato?

Faccio un nome per tutti: Marco Van Basten. Pur avendomi spaccato un ginocchio in allenamento – sorride - Marco rappresenta l’essenza del campione: una tecnica non comune unita alla forza fisica e all’eleganza. Nonostante certe sue durezze caratteriali è rimasto sempre un uomo coerente, un uomo e un amico vero. L’aver dovuto smettere per infortunio a soli 28 anni è stata la più grande sconfitta per tutto il calcio.

Parole da vero amico più che da compagno di squadra.

Sì ma i miei due amici del cuore, quelli che mi accompagnano da una vita non sono degli ex compagni di squadra. Sono Edgardo Zanoli, che sembrava potesse andare nello staff Under 23 del Marsiglia di De Zerbi e invece, al momento si occupa di formazione qui in Italia in ambito universitario, aziendale e sportivo. L’altro amico di sempre è Domenico Gualtieri, sport scientist e preparatore atletico che adesso lavora in Arabia Saudita. Loro due vivono il calcio come me, in modo eretico, perché hanno il coraggio e la sensibilità del cambiamento, e la nostra missione, da qui in avanti, sarà far capire che il futuro, anche del calcio, passa dai giovani.

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